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Monte Breccioso (1974 m) dai Prati di S.Elia

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


"Vedrai, è una magnifica balconata ...": con queste parole, lo scorso autunno, il mio amico Mauro mi aveva coinvolto nella titanica impresa di raggiungere il Balzo di Ciotto partendo dai Prati di S.Elia, a Collelongo. Avevo accettato senza esitazioni, ignaro di quale interminabile fatica mi stessero riservando. In effetti, quel giorno camminammo per dieci ore, costantemente immersi nelle nuvole, sferzati da una fine ma insistente pioggerella e dal vento inclemente; per di più, giunti ai Tre Confini, ci eravamo resi conto che il tempo non ci sarebbe bastato per raggiungere il Balzo, ed avevamo perciò ripiegato sul vicino Cornacchia. 

Il Pizzo Deta dai Prati di S.Elia

Eppure, nonostante una frase di incoraggiamento lanciata lungo il cammino - "Su Villavallelonga vedo azzurro ..." - non avevo visto niente che fosse a più di 100 metri da me, vista la fitta coltre di nuvole che ci aveva accompagnato tutto il giorno, e della magnifica balconata nessuna traccia. Così, interpellato in un venerdì di ottobre da Giovanni per una camminata breve ma di interesse, decisi di ritornare dopo un anno a vedere finalmente la cresta della Serralunga, tanto più che, la notte precedente, avevo sognato di vedere la sella di Forca Resuni da lontano, in una limpida giornata autunnale. Così, il sabato mattina, siamo a Collelongo, lungo la tortuosa stradina che sale al valico dei Prati di Sant'Elia, incorniciata dal succedersi delle magnifiche chiome colorate degli aceri, rosso aranciate.

Al valico posso appurare che la giornata è davvero ottima, con visibilità eccelsa: verso nord scorgo l'arcigna groppa del Monte Corvo, salita quindici giorni prima. Più ravvicinata, oltre la Valle Roveto, la visione sul Pizzo Deta è istruttiva, dettagliata, ricca di particolari sul ripido vallone di Peschiomacello, e sulle propaggini boscose che si protendono verso Sora. Ripasso a memoria le cime che si affiancano al Deta: il Ginepro, il Cappello, il Brecciaro, il monte del Passeggio, ed il Pratillo; mi ricordano una grandiosa cavalcata di cresta in un'assolata giornata di primo luglio.

Panorama sugli Ernici

Iniziamo la salita, passando accanto alla stazione meteorologica, e in breve siamo già sul filo di cresta, di fronte alla nostra meta. Avanziamo fra tracce di sentiero e piste di bestiame, il terreno ha già un aspetto stepposo, ciuffi d’erba ingialliti e prostrati dalla lunga estate si aggregano in larghe chiazze a formare una sorta di “moquette” naturale; il percorso è a saliscendi, non particolarmente interessante nei dintorni, ma ricco di ampie vedute sulle catene circostanti, a partire dalle vicine boscaglie del Marcolano e, più in là, del Turchio.

Proseguendo quasi in piano, giungiamo all’ingresso di una modesta faggeta, depauperata da tagli recenti, composta quasi esclusivamente da piante di giovane età. Qui si comincia a salire, abbastanza ripidamente, per canaloni fangosi e viscidi, probabilmente utilizzati per calare i tronchi tagliati a valle.

Colori autunnali del bosco

All’uscita dal bosco, nonostante le chiacchiere animate, siamo abbastanza attenti per accorgersi che la traccia di sentiero si è persa e, lasciato alle spalle il limitare del bosco, già non si percepisce più il punto da cui siamo sbucati: meglio perdere qualche minuto per piazzare un piccolo ometto di segnalazione. Proseguiamo ancora per prati, alzandoci fino ad uno spallone panoramico che svela alla vista la lontana sommità della Majella, ammantata di prati color oro e ruggine.

Qualche attimo di contemplazione e lo sguardo cade irrimediabilmente su un luccichio alieno: i soliti fuoristrada con carrellino che testimoniano l’immancabile battuta di caccia autunnale (ma non siamo nella zona di protezione esterna del parco ?). Si è alzato il vento e fortunatamente raggiungiamo un’altra fascia di bosco, che ci fornisce un riparo occasionale: finalmente ho modo di osservare i veri colori autunnali nelle piccole foglie dei giovani faggi cresciuti al limite della cresta, tipicamente contorti dallo sferzare incessante dei venti; c’è il giallo tenue screziato di verde, l’oro intenso che trascolora in ruggine e marrone, il rosso intenso degli aceri, più in basso.

La Capra Giuliana e i monti del Parco

Siamo quasi sotto la vetta, ed ecco poco lontano i cacciatori sparsi per la macchia, a gruppetti si sono appostati sulla sommità delle alture che chiudono i ripidi valloni digradanti verso la Vallelonga, probabilmente attendono il passaggio dei piccoli migratori che lasciano il fondovalle per intraprendere il lungo viaggio verso ovest, verso l’Africa. D’improvviso, mi sovviene l’immagine delle rondini appollaiate sul cornicione della chiesa del paese, proprio la settimana scorsa, intente a radunarsi prima della partenza: forse i cacciatori sono in ritardo quest' anno.

Ci avviciniamo diffidenti, salutando a denti stretti, non traspare simpatia nei nostri sguardi. Eppure li guardo bene, indaffarati in un’opera inconcludente, quasi frustrati da una lunga attesa senza profitto: c’è ben poco a cui sparare, quel poco di fauna rimasta sulle nostre montagne si guarda bene dal praticare i luoghi accessibili all’uomo e soprattutto ai fuoristrada. In fin dei conti, ritengo (e mi auguro vivamente) che il problema della caccia prima o poi si risolva da solo, per semplice estinzione della specie “cacciatore”, come inesorabilmente prevede la matematica dei modelli preda-predatore: la tragica povertà di specie animali e biodiversità che caratterizza i nostri ambienti naturali rende ormai poco appetibile la pratica della caccia e oltretutto, da un punto di vista sociale, si tratta di un'attività più che decadente, senza presa, e quindi senza ricambio, nei giovani, perché da un lato non è “di moda” e dall’altro non  ha alcun valore sportivo o morale alle spalle.

Panorama dalla vetta

Ma passiamo avanti, e godiamoci l’ultimo sassoso traverso sotto la vetta, al margine di un modesto circo glaciale in seno al quale si assiepa una variopinta foresta di aceri e faggi, nella quale mi piace immaginare stia scorrazzando beffardamente l’orso. Giunti ad un intaglio roccioso, ci affacciamo sulla morbida increspatura della Capra Giuliana, e poi sui Tre Confini e la scorbutica mole del Cornacchia. Non resta che salire lungo l’agile crestina, con magnifica – e ventosa – veduta su Velino e Sirente e, oltre, il Gran Sasso. Alle spalle, guardando a sud attraverso una gola prativa, possiamo scorgere la catena azzurrognola dei monti Aurunci, oltre la Valle Roveto e la piana di Sora. Pochi passi e siamo in vetta, appagati da una perfetta visione circolare: ecco non lontano il groppone inconfondibile del Marsicano, le guglie della Camosciara e la cresta seghettata del Petroso, e Forca Resuni, proprio come nel sogno, nella stessa limpida luce, solo un po’ più lontana. Ci adagiamo sotto la cresta, per mangiare al riparo dal vento, proprio di fronte alla Majella, che segna l’ultimo orizzonte prima del mare.

Ci godiamo la tranquillità del cielo pulitissimo e trasparente, increspato da lievi venature vaporose, e per magia, ci rendiamo conto di non aver sentito nemmeno un colpo di fucile in tutta la mattinata. Quando, soddisfatti, decidiamo di ridiscendere, vediamo dall’alto i cacciatori che battono in ritirata, a mani vuote.