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Monte Breccioso (1974 m), da Balsorano

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


C’è un lembo dell’appennino fra il Lazio e l’Abruzzo … Lo sapete, amiamo i luoghi segreti, silenziosi, amiamo quell’appennino lontano e misterioso che magari è dietro casa, quello che ci fa sentire novelli Livingstone tanto è il tempo che le sue valli, i suo boschi, le sue dorsali non sono segnate dal passo dell’uomo. Magari le vette si raggiungono per altre strade – magari – ma la conoscenza di particolari vie d’accesso, utili una volta soprattutto per la transumanza, è spesso sepolta nell’abisso dell’oblio collettivo.

Il castello di Balsorano

Pieghe del territorio dimenticate, lontane eppure così vicine, misteri quasi domestici colmi di atmosfere, porte di passaggio fra tempi e civiltà diversi e non più contigui, sentieri – seppure segnati ma di fatto dimenticati – frusti come vestiti dismessi inaspettatamente ricchi di fascino, di profumi, di ignoto. Uno di questi luoghi è per noi lo splendente  vallone di S.Onofrio, recondita fessura che sale a forma di falce alla vetta del Breccioso,  gemma celata dalle piccole alture sulle quali si adagia il paese di balsorano dominato dall’omonimo imponente castello.

Siamo nella spettacolare Valle Roveto - detta anche Valle del Liri – quasi alla confluenza con la piana di Frosinone, al termine della Serra Lunga, al limite sud-est del Parco Abruzzi, davanti la punta aguzza del Pizzo Deta, vanto dei prospicienti Ernici. Osservare il luogo dalla base, visione improvvisa colta nel fulgore primaverile, suscita meraviglia per la sua  profondità, l’inafferrabile ripidità e l’intensità cromatica dei verdi che, dagli orizzonti quasi marini – si parte neanche da 600 metri – accompagna fitta e cupa fino a quelli d’altura prossimi ai 2000 metri dove dominano le scure e strapiombanti le rocce del monte. Il viaggio inizia fra oliveti superbi – oramai sono pochi quelli ancora attivi – impiantati su terrazze sostenute da magistrali muri a secco, eleganti nella loro forza.

Fra gli oliveti

Le coste dei monti, già all’ingresso, incombono sul sentiero che lentamente s’insinua nel costretto di gravoni brecciosi ribollenti di pietre ossidate, attraversa vibranti atmosfere pregne di profumi, estese ombre lacerate da larghe lame di sole animate da vorticosi polverii. Un silenzio sacrale fascia l’ambiente ed ottunde le nostre poche, sommesse voci. Una potente curiosità ci inietta energie sopite, impensabili. È il regno del leccio che cresce sotto l’influsso dell’aria marina e si intreccia nervosamente, sfaldandolo, con il pietrame delle gravare e delle frastagliate pareti che ad imbuto, su terrazze di salti verticali, chiudono il vallone.

Il passo è agevole, alcuni intralci non rimossi testimoniano la recondità del luogo, le ondate dei profumi della salvia, della mentuccia e del timo che vegetano in quantità industriali vezzeggiano l’olfatto facendo immaginare prelibate vivande. Sorprende soprattutto la salvia, rinvenuta da noi solo in questa zona dell’appennino, che cresce su piante vecchissime, piccoli tronchi legnosi di chissà quanti anni. Fra ginepri rigogliosi e forti roveti il sentiero si muove scoprendo dopo ogni ansa chiusa come un sipario, un passo sempre agevole ombreggiato da lecci e roveri, sovente invaso da pietre rutilanti. Di colpo la valle respira entrando in uno slargo, chiuso da forti e ripide pareti, dove il pendio rialza sostenendo i primi faggi.

Salvia selvatica

Lasciato sulla sinistra un fontanile asciutto, il sentiero s’impenna repentino e striscia silenzioso su uno stretto fruscio di spesso fogliame. La ripidità è notevole e la scelta oculata del percorso può agevolare la comunque breve salita che, allo sfociare su una breve terrazza, trova il punto di maggiore difficoltà. Ci sentiamo incastonati nella valle, dentro verdi avvolgenti, fra rocce e terre scure, confusi in silenti ombre mentre dalla base del pendio dove sulle serrate quinte di fondovalle ogni immagine si compatta, emerge a chiusura la costiera sudest degli ernici coronata al suo limite dalla superbia del Pizzo Deta.

La partecipazione emotiva è intensa, viviamo piccole ansie per il tratturo che non sempre promette passi certi e sicuri. Seguiamo radi segni ed il nostro intuito, lasciamo il vallone di S. Onofrio e, dopo un passaggio pianeggiante attraverso faggete dal sapore fiabesco, una breve risalita allo scoperto adduce, per un itinerario fortemente accidentato, ad una ricca fonte, annunciata ma attesa come una meta agognata.

Alla fonte

La giornata è afosa, l’acqua è di una dolcissima frescura, ne beviamo a sazietà, senza stancarci. Il fontanile, in discrete condizioni, è stretto in un impluvio ancora più impervio ed aspro dell’altro. su quelle coste ripide e boscose, inframezzate da fasce vaste di sedimenti calcarei e inerpicate radure agitate da brecce incerte, si espande il nostro sguardo e coglie emozionato il selvaggio sapore del luogo. La contemplazione è d’obbligo. Il passo – evitare i segni che portano verso la destra orografica – supera la sorgente e si inerpica sopra entrando su un piccolo piano pavimentato da enormi pietre, ombreggiato da bassi faggi tipo baobab, colossali ombrelli di fitto fogliame intrecciato, cupi come la notte, frigidi come una grotta.

Un lungo evidente passaggio in leggera salita sempre sul filo di costoni sotto i quali il bosco quasi precipita in un impressionante viluppo di tronchi e rocce dove regna lussureggiante il leccio dalle mille sfumature, su tratti di sentiero a volte dannatamente frastagliato ma coronato ad ogni radura dalle vette del massiccio screziate ancora di neve, porta infine verso i primi pianori d’altura, alla confluenza con il Vallone Casalicchio che risale anch’esso da Balsorano. Siamo intorno a quota 1300. ci accoglie una lenta primavera appena visibile sui pendii verdi. In alto i salti di roccia scura delle vette del Breccioso.

Guardando la vetta

Si perde l’incerto segno nel seguire la carta topografica – c’è un probabile errore di stampa – ma lo si ritrova – irrazionale - affrontando in verticale il ripido pendio d’erbe, ginepri ispidi e sassi, lasciandosi ampiamente sulla destra i balzi della cime e orientandosi verso l’ultima fascia di ripida faggeta oltre la quale si risale, fra lo sfolgorio di tardive viole calcavate, orchidee e narcisi, sulla vetta del monte. Nel risalire il cono finale osserviamo d’infilata tutta la lunga e potente spalla sud ovest della serra lunga ed i suoi articolati pianori di sommità che costituiscono un privilegiato punto di osservazione posto fra l’appennino laziale e quello abruzzese.

Freddo e nevischio ci accolgono sulla vetta che è quasi gemella del vicino monte Cornacchia, ne ammiriamo la lunga e imponente dorsale che avviluppa gli ancora innevati valloni nord alla base dei quali si sgretolano antiche morene. L’Abruzzo Marsicano, dal parco nazionale al Velino e al Sirente, emerge impassibile dalle basse e umide nebbie. Sulle aguzze vette e le imponenti dorsali  un fosco sole accende opachi brillii di neve. Ristoro fulmineo alla base della vetta, alla fonte delle fate  – c’è una presa d’acqua –  poi, da quelle spalle possenti, le nostre figure minute perse nelle immense dimensioni delle cose, cominciano a scendere dominando con lo sguardo le innumerevoli cime degli Ernici, e, sotto, la valle ciociara e la Valle del Liri. Rientriamo alla base all’imbrunire quando i colori in progressiva dissolvenza svuotano lentamente le forme, nella nostra mente rappacificata dalla fatica si dissolve ogni sofferenza, si accendono i fari della vettura e disseppelliscono dal buio contrastati brandelli di realtà.