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Sassi, neve e ... Cornacchia: Monte Cornacchia (2003 m), dai Ridotti di Balsorano

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


Qualche anno prima, dopo un paio di tentativi, ci eravamo arrivati, per il lato destro (la sinistra orografica)…. quasi per caso…eravamo in due….nevicava in alto, era di febbraio…giornate ancora brevi, ma arrivammo. E riscendemmo di corsa per la minaccia di neve. Non ricordo come facemmo esattamente…solo tracce nella memoria. Poi altri tentativi…, uno anche per il versante di sinistra (sempre da Ridotti)…falliti anche quelli. Non che sia imprendibile il Cornacchia…ma da Ridotti, per il fianco destro non è facile (solo per noi però non è facile, chissà!), non ci sono segni, non ci passa quasi nessuno – crediamo – nessuno sa dare precise informazioni! Poi con una buona “squadra” e con la ostinazione propria dei camminatori di montagna decidemmo di recente che dovevamo arrivarci su quei 2003 metri d’altitudine e proprio viaggiando per il fianco meridionale. Questione d’onore! Questa parte finale (sud) della Serra Lunga che con il Cornacchia segna l’apice ovest del Parco Abruzzi, è caratterizzata dalla pietra, una marea straripante di pietra, strapiombante, rotolante, avvolgente, ossessiva, ma è la bellezza del posto!

Pizzo Deta e la Valle Roveto

E non è che inventiamo qualcosa..qui i toponimi sono Il “Breccioso”…la “Brecciosa”…quindi parla da se la cosa, e lo stesso Cornacchia poi non è certo un invito al ballo, già dal nome! Quasi in fondo alla Val Roveto, partendo da Avezzano, dopo Balsorano, Ridotti (che ne è frazione), si adagia sotto il massiccio quasi con timore, con le sue basse case ai piedi della pietra che incombe ripida sugli uliveti e sugli orti della costa di fondo. I fianchi del Breccioso e del Cornacchia ai tramonti autunnali sembrano adorni di un immenso drappo rosso, sontuosi, screziati da intense macchie vermiglie e dal brillio sconfinato di milioni di rocce rosate: sono i pascoli d’altura, gli aceri rossi dell’autunno fra il giallo dei faggi e lo scuro della macchia, le pietre tracimanti da ogni dove immersi nell’addio dorato della sera, monumenti di bellezza sopra i manti d’ombra minacciosi risalenti dalle valli buie.

Questo spettacolo volevamo vedere..ci eravamo organizzati anche per questo, ma ci andò male. Il tempo non fu del tutto propizio, soprattutto la sera…è vero aveva vinto la Roma (per i romanisti eh!) …ma le “amate” coste erano rimaste opache, grigie, senza luce, senza sole. L’escursione fu tuttavia interessante anche se ci volle un impegno di rilievo che mise a dura prova il senso dell’orientamenti nostro e la resistenza fisica. Ce la facemmo ed ottenemmo in regalo altre grandi bellezze, e nuove emozioni.

Dalla prima spalla: guardando la sommità

Ve la raccontiamo. Dunque, verso le 9,30 di una domenica di ottobre, iniziammo a salire partendo da sopra il bar posto nella

parte alta del paese: salire si perché il primo tratto, tutto asfalto, era un breve, intenso strappo. Poi, entrati a sinistra per una sterrata, avemmo l’impressione del chiudersi alle nostre spalle di un mondo e dell’aprirsi di un altro: il passaggio di scena fu rapido, dal cemento alle brecce incipienti, anche se dai fondo valle ampi della Ciociaria mormorava il formicolio della vita sotto le colonne del fumo dei camini e nell’ondeggiare delle lontane immagini sommerse dalla vaporosa umidità della mattina. Un altro breve strappo sul largo sentiero poi l’ingresso nel primo teatro di rocce! Era la fine delle vie certe e l’inizio del paese della  pietra. Nel catino di brecciume eroso dalle coste sovrastanti, uno stentato sentiero provava a salire ma si immergeva poi fra i sassi…inghiottito si arrese, provò a riprendersi più su ma naufragò fra mille tracce ognuna delle quali si rivelò effimera.

Uscita sulla cresta sommitale

Fu il momento di usare la testa, di rammentare visivamente come si muovevano i costoni visti dal basso, ripescare nella memoria le esperienze fatte, tenere sempre in mente la posizione dell’obiettivo celato dalle prime alte fiancate del massiccio. Su tracce incerte, nel pietrame sconnesso, superammo un gregge più che altro caprino, raccogliendo la profezia di un pastore…, volgemmo a destra entrando in un suolo incerto di terre e sassi con incisi vari tracciati privi di logica.. Ma era sempre verso destra che dovevamo andare, risalendo. Era un posto senza identità, senza senso. A “naso”, in  diagonale destra attraversammo un paio di fossi senza soverchie difficoltà, entrammo in una abetaia, procedevamo solo su tracce, orientandoci sistematicamente a destra. Avevamo un solo ostacolo al momento: l’orientamento.

Con pazienza tuttavia arrivammo sul dorso della lunga costiera vista dal piano, all’altezza di un vecchio stazzo in rovina navigante nel mare delle pietre, ed ottenemmo una migliore visuale del percorso possibile. Sotto i ruderi, verso sud, un abisso di rocce e arbusti intricati con bassi alberi. Dunque riprendemmo dopo l’esplorazione “ottica” e, tenendo in mente qualche errore fatto in precedenza, risalimmo il dorso della lunga costa entrando, dopo aver ben superato il limite superiore della macchia di abeti, nella faggeta.

I monti del Parco

Stavamo ora convergendo a sinistra dopo l’aggiramento a destra fatto per evitare peggiori disagi di salita. La faggeta a volte rada ed erbosa, a volte cupa e terrosa, qua e là abitata da belle colonie di nebularia, si impennò di colpo costringendoci a diagonali scomode finalizzate a smussare la pendenza. Salendo senza tregua entrammo in una vasta radura e, quasi perpendicolarmente, fra radi gruppi di faggi, la risalimmo tutta sbuffando come locomotive, ma senza binari. Una fatica non usuale, gli occhi in alto per cercare una linea di fuga verso un minimo di dolcezza! Niente, l’impervia costa non regalava niente, solo un profondo senso di isolamento rotto dal nostro respiro affannoso accompagnato dall’ansia di evitare errori.

Di fronte, sull’altro versante della Val Roveto (o Valle del Liri), Pizzo Deta con la sua aguzza vetta e la lunga spalla del Passeggio e del Ginepro: gli Ernici sud…l’ultima wilderness del Lazio (ma fino a quando?). Non ci distraiamo però! Intanto, il sole che ci aveva accompagnato nella prima parte del viaggio si stava facendo coprire da nuvolaglie sempre più fosche in arrivo da est. Il veloce vento della mattina si era placato e un presagio inespresso intimoriva i nostri cuori. Toccammo i ripidi costoni sommitali, ma ripidi proprio, che se approcciati male possono creare problemi di esposizione e di fatica ! Ci andò bene e chi di noi, gli ultimi, vedeva sopra i primi inerpicarsi, si poteva accorgere quanto fosse impennato il fondo osservando lo stretto angolo fra questo e le figure che salivano.

Il Serrone ed il Vallone Lacerno

Poi finalmente s’addolcì la pendenza ma con questa quiete, quasi ci fosse un accordo, s’adirò il tempo, tornò il vento trasportando stille sottili di acqua gelata. Subito le incerate addosso mentre completavano l’impennata e, allo spianare….. verso i valichi…un polverio turbinante di minuscole biglie di giaccio radendo da est le creste ci percosse picchiettando sulle plastiche e sui volti inquieti: la neve ad ottobre! Che facciamo? Incertezze…timori…la profezia del pastore avverata …”troverete la neve” lassù” – quando si dice l’esperienza! – ..poi Coppi e Bartali in fuga, due di noi ruppero gli indugi e si lanciarono verso il valico aggredendo un lungo passaggio verso sinistra, ancora senza segni ma adesso con obiettivo a vista.

Il gruppo titubava poi…uno…due…tutti all’inseguimento! In breve, mentre la noiosa furia della piccola tempesta si spegneva fra sprazzi di cielo blu, trafitti da repentini raggi di sole, toccammo la sella sud del Cornacchia, a circa 1900 mslm. Il premio arrivò in quel momento: sotto minacciose schiere di nubi in movimento prussiano verso di noi, fra una cannonata e l’altra sparata dal sole che rubava spazi di sereno, davanti a noi l’intero Parco sotto la coltre fosca dei nembi, visibile in ogni dettaglio, muto, indifferente agli eventi e alle nostre fatiche, svettante nelle centinaia di grigie cime tese in alto quasi a scansare la minaccia delle prime intemperie.

Dalla vetta: il lago di Posta Fibreno

Un paesaggio dark, bellissimo anche in quella momentanea cupa vastità! Incassammo l’assegno e, per cautela risalimmo frettolosi la costa finale, toccammo la cima (punto trigonometrico). Dopo un rapido pasto, mani ghiacciate, riscendemmo alla sella velocemente. E qui continuò questa piccola avventura! Il nostro timore al pensiero di scendere per pendii così ripidi fra pietre incerte spesso sepolte da erbe, in caso di pioggia o neve ci spaventava un po’, c’era qualche rischio che non volevamo correre. Avevamo adocchiato sotto di noi, dritto su Ridotti, un vallone boscoso, invitante per la discesa, invitante ma pieno di enigmi! Dove finiva? Era pericoloso? E se poi se dovevamo tornare indietro perché impraticabile? Rischiavamo una fatica ben maggiore insomma. Breve consultazione ma entrammo fiduciosi nella macchia prima bassa e cespugliosa ma presto divenuta bosco. Una forra silente, incassata, animata dai nostri fruscii sullo spesso strato di foglie secche e da richiami all’attenzione espressi con toni circospetti, respirati quasi. Sembrava la scelta giusta, procedevamo nel fondo del vallone sempre più ampio, quasi protettivo, su un  mare di fogliame incalpestato chissà da quanto tempo! Tutto andava, sembrava… La sgradita sorpresa non tardò però ad arrivare: un salto di rocce profondo.…sconcerto…e adesso?

Esplorammo la destra ma ci trovammo davanti un’enorme placca tondeggiante di calcare compatto incorniciata dagli alberi, della quale bisognava risalirne la parte alta per trovare una soluzione, ma si finiva in un caos di brecce quasi verticali, rutilanti. Impossibile! Al centro del vallone il balzo di rocce sporgenti, sospese per miracolo, appuntite, minacciose!! Ci si prospettò una faticosissima retromarcia, circa 300 metri di dislivello da risalire, e ricominciare tutto da capo…e quei pendii adesso certamente viscidi, infidi!  Tutto da capo, anzi peggio di prima. Disperazione!

Tramonto sul Monte Viglio

Ma la fortuna ci venne incontro: il Cornacchia si commosse e quasi per incanto allargò il possente braccio sinistro e ci aiutò ad uscire dal fondo, dopo breve esplorazione, appena sotto un costone impennato ed inestricabile per pietrame arbusti e radici. Entrammo così su quel largo braccio della montagna, una radura di sassi e faggi sparsi che seppure ripida e aspra, era praticabile anche se con cautela. Fu un sollievo e la scelta di quella via di discesa, connivente la montagna, solo allora si rivelò valida poiché  eravamo  sotto i pendii più ripidi ed il cammino, faticoso sempre, era ormai con rischi più controllabili. Ancora brevi scrosci fra chiazze di blù che trasvolavano in rapidi passaggi nello scomporsi continuo delle nuvole agitate da alte brezze.

I densi profumi della salvia selvatica furono i tonici che ci rammentarono la bellezza del posto pur nella sua spietata durezza e ci fecero riassaporare in pieno l’escursione….un profumo intenso che si fuse armonicamente con la nostra recuperata serenità. Discesa lenta, attenta, il Deta sempre vigile difronte in continua lotta con la nuvolaglia nell’ansia di vederci arrivare sani e salvi. Una lunga diversione a sinistra a scendere, per evitare uno sperone sporgente drammaticamente grosso e impraticabile, ci portò infine nella parte bassa dell’abetaia, sui pochi incerti sentieri, ma il gioco era ormai fatto. Nel teatro di rocce cademmo a piombo in due o tre, proprio a rischi quasi azzerati, scivolammo battendo il retro ma…salvi…

I timorosi e gli incerti adesso si sentivano soddisfatti…la grande fatica era stata ripagata, l’illogico viaggio aveva trovata una ragione: la volontà aveva vinto il timore e si era presa un piccola vittoria. E il Cornacchia, generoso con il nostro piccolo coraggio, fra una difficoltà e l’altra ci aveva donato non poche pure sensazioni. Giungemmo al paese in un crepuscolo già denso privato delle vene rossigne del tramonto da uno sciocco nuvolame , passi furtivi calpestavano il silenzio sgusciando fra i lampioni fiochi. Ci sistemammo, un caffè, un bar  denso di luci e fumi. Poi fummo inghiottiti dalla valle che ardeva di mille fari. Verso casa!