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Pizzo Deta (2041 m), per il Vallone di Peschiomacello

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


E'la prima volta che veniamo a Roccavivi per salire al Deta, Franco è stato qui dieci anni fa, ma non ricorda più la strada: il paese è ancora vuoto, nonostante l'ora non proprio mattutina, invano andiamo su e giù cercando qualcuno che ci indichi la via per salire verso la montagna; poi finalmente un signore, gentilissimo, ci ragguaglia sulla direzione da seguire offrendoci, da un grosso cesto, i fichi appena colti nell'orto. Così saliamo verso la montagna lungo una tortuosa carrareccia, con bella vista sulla valle del Liri. Raggiungiamo un grosso fontanile dove ci fermiamo per rinfrescarci, la giornata si presenta già calda e afosa, all'ombra di un florido castagno che è già carico di grossi ricci verdognoli. Rimontiamo in macchina e proseguiamo sino al termine naturale della strada. Da qui uno stradello in ripida salita si stacca sul lato della montagna, fino a giungere ad un grosso spiazzo: un signore che ha appena colto dei profumati mazzetti di origano selvatico ci indica la traccia di sentiero da seguire: quella di destra guardando verso il fianco della montagna.

Il Breccioso e la Valle Roveto

Si entra subito in un boschetto ceduo di fusti esili, lungo una stretta traccia scavata nella terra, ci si aggira un pò fra macchie e vegetazione ingombrante, l'aria è già calda ai limiti della sopportazione e l'ombra non apporta il benché minimo conforto. Raggiungiamo le tristi vestigia della Fonte Matté, assolutamente asciutta, poi proseguiamo fino ad una zona di tagli, lungo una ripida scarpata di sassi e terra. Seguiamo una traccia intuitiva verso destra, fino a raggiungere il ripiano erboso di Colle Po: la posizione è dominante sulla valle Roveto, ma l'atmosfera è desolante per l'immagine di siccità che trasmette.

La terra è quasi spaccata per il caldo, i cespugli di ginepro sparsi qua e là sembrano gridare la loro sofferenza al viandante che vi passa accanto. Abbiamo un momento di esitazione, poi scegliamo una traccia in salita, che parte proprio dal centro della radura. I primi passi in salita sono drammatici, per l'afa che toglie il respiro, quasi mi sento svenire e ho bisogno di mandare giù una cospicua quantità d'acqua. Fortunatamente, più in alto, ci addentriamo in un bosco sufficientmente fresco, sempre seguendo una traccia piuttosto evidente.

All'ingresso del vallone

In breve, dopo un'ampia curva nel bosco verso sinistra, raggiungiamo il luogo di sfogo di una recente slavina: camminiamo su cumuli contorti di frasche, rami e tronchi che si piegano sotto i nostri passi; qualche pianta di lampone ci offre miracolosamente le sue preziose bacche. In breve raggiungiamo il piede di una poderosa parete calcarea, nella quasi oscurità dell'ombra proiettata dai grossi faggi addossati alle rocce. Siamo all'ingresso del vallone di Peschiomacello: infatti, da qui in poi, iniziamo a salire lungo un fiume di sassi e brecce, ripidissimo; fortunatamente i piedi affondano nel pietrisco e offrono una stabilità sufficiente. La pendenza è molto elevata, tanto da farci già preoccupare per il ritorno, cerchiamo di scegliere le tracce più agevoli, rimanendo al margine del bosco, dove le solide radici degli alberi possano costituire un valido punto di appoggio.

In questo modo raggiungiamo una prima apertura, da dove si incomincia a delineare la fisionomia del canalone, con pareti di roccia che ne serrano i fianchi. Ci fermiamo a riposare seduti su un grosso tronco abbandonato senza vita nel mezzo del fiume di brecce. Tuttavia l'impressione generale è meno esaltante del previsto: il vallone non è molto ampio e non suggerisce affatto quella particolarità imponenza e maestosità che appare a chi lo guardi dal fondo della valle. Anche le pareti di roccia sui fianchi non sono certo delle più impressionanti.

I "denti" del Deta

Ripartiamo costeggiando il fianco sinistro del vallone, muovendoci tra roccette e grandi piante di malva. Più sopra il sentiero sembra interrompersi contro una parete verticale: Franco ci ha avvertito di un passaggio su roccia, ma in realtà qui siamo solo ad una strozzatura del vallone, il sentiero prosegue più tortuoso, inerpicandosi su scaloni di rocce come sul fondo di un torrentello stagionale. Dopo poco, ma non senza fatica vista l'asperità del terreno, sbuchiamo finalmente presso un'ampio catino popolato di piante di genziana maggiore; ora il vallone comincia a svelare il suo aspetto più duro: di fronte a noi si stagliano le prime alte pareti che sorreggono il trono del Pizzo Deta e l'ambiente si fa, nel complesso, nettamente più selvaggio. Il cielo si è velato ed ora la luce che filtra tra le nubi conferisce alla scena un aspetto severo, dominato dall'alternanza di grigi cupi e senza luce e verdi profondi.

Saliamo più in alto sino alla base di un canalino roccioso, è il passaggio di arrampicata che ci aspettavamo, si tratta di un diedro alto forse una decina di metri che si alza a superare una bastionata di rocce e scivoli erbosi difficilmente superabili altrimenti. I bolli rossi poi confermano che non c'è altra via per proseguire. Riponiamo i bastoni, mi avvio per primo innalzandomi sul bordo sinistro del canalino, il centro della svasatura è ingombro di terriccio e sfasciumi e non offre grande solidità.

Veduta sul circo glaciale sommitale

Più in alto la salita si fa più ostica, così mi sposto sul fianco destro, con una specie di spaccata: qui gli appoggi sono abbastanza larghi, ma bisogna fare attenzione a dove si mettono le mani perché molte rocce sono instabili, in breve raggiungo il bordo superiore del camino: guardando verso il basso mi rendo conto per la prima volta che scendere da qui non è affatto praticabile, troppo ripido ed esposto per potersi avventurare in discesa, non abbiamo nemmeno una corda per assicurarci.

Attendo l'arrivo degli altri per discuterne: Mauro prova a vedere se ci sono altri passaggi oltre al camino, ma inutilmente, è evidente che dobbiamo trovare una via alternativa per il ritorno. La prima ipotesi che ci viene in mente è scendere a Rendinara per la Valle del Rio, confidando di trovare un passaggio in auto per tornare a Roccavivi. Poi mi ricordo di un altro sentiero, indicato su una guida piuttosto datata, che dal Pizzo Deta raggiunge il Vado della Rocca (il passo che separa la Valle Roveto da Prato di Campoli, sul versante laziale: dal vado dovremmo essere in grado di scendere in un punto non molto distante dalla macchina. Rimandiamo l'analisi dell'itinerario a quando saremo in vetta.

Cresta sommitale

Intanto risaliamo ancora entrando in una ampia conca glaciale: ora la montagna ci mostra le sue pareti più imponenti, i potenti contrafforti calcarei che sorreggono la vetta e le conferiscono quell'aspetto slanciato e svettante. Attraversiamo lentamente una antica morena, saltellando da un pietrone all'altro in mezzo ad un mare di sfasciumi, fino ad arrivare ad un secondo gradino che interrompe la continuità del vallone: qui non ci sono rocce da salire, ma la ripidità del pendio, dal fondo erboso, non richiede minore attenzione del camino precedente.

Saliamo quasi a quattro zampe, un assetto poco ortodosso ma che ci garantisce una stabilità sufficiente, a tratti ci aiutiamo agguantando a piene mani i folti cespugli d'erba disseminati lungo il camino. Finalmente siamo fuori anche da questo pendio, ritroviamo la traccia visibile di sentiero nei pressi di un'ultima conca prima della cresta sommitale.

In vetta

In breve siamo in cresta, dove ci accoglie un bel venticello: pochi minuti e raggiungiamo la vetta, ci gettiamo a terra ormai sfiniti per l'interminabile salita. Che dire di questa vetta ? E' tra le mie preferite per la sua eleganza, il suo protendersi verso il cielo, dominante al di sopra di tutte le catene intorno. Purtroppo la caligine non permette di spingere lo sguardo troppo lontano, ma ci basta il dominio sulla valle del Liri, sulla depressione di Prato Campoli e i fittissimi boschi della Serra Comune e dei rilievi che scendono verso la piana di Sora. Poco al di là del filo di cresta sul quale ci troviamo il terreno sfugge via sotto i piedi, precipitando in una successione di rocce e pendii vertiginosi.

Dopo mangiamo ci mettiamo ad analizzare la cartina IGM: il percorso sembra plausibile, si tratta di scendere lungo la cresta est fino al Vado della Rocca, per poi proseguire nell'ampio vallone che dovrebbe scendere fino a toccare la sterrata percorsa in mattinata, più o meno nei pressi del fontanile con il castagno. Anche a vista il percorso non sembra presentare grosse difficoltà. Così iniziamo a scendere sul versante sud, fino a riportarci più in basso sul filo della cresta est: in poco tempo raggiungiamo l'inizio della boscaglia, con piacere scopriamo l'esistenza di un sentiero segnato (colori rosso-azzurro) che sembra tracciare proprio il nostro itinerario. Ci inoltriamo così nel bosco, seguendo i segnali. Si tratta della classica boscaglia che riveste le creste spartiacque, quelle battute dal vento dove gli alberi crescono bassi e contorti: per scrupolo seguiamo fedelmente i segnali che tuttavia si ostinano a mantenere esattamente il percorso sul filo, laddove per l'ingombro della vegetazione e l'abbondanza di rocce il cammino è più faticoso e lento. A tratti poi, alla segnaletica già detta se ne sovrappone un'altra di colore giallo-rosso così da aumentare la confusione e renderci dubbio ogni passo.

Rocca Vecchia

E' una vera tortura questo saliscendi privo di panorami o vedute, in compenso però l'ambiente è molto selvaggio e solitario, sospeso nel silenzio più totale, interrotto solo dal fischio del vento fra i rami: curiosamente l'atmosfera è la stessa che si respira su tutte le creste della catena Simbruino-Ernica che dividono direttamente il Lazio dall'Abruzzo, è un paesaggio in qualche modo familiare, potremmo essere benissimo sulla cresta del Tarino, o sulla Tagliata e vedere le stesse luci, sentire lo stesso vento, cogliere lo stesso senso di solitudine e di abbandono nella natura.Al termine di un infinito saliscendi raggiungiamo un profondo intaglio, dove il bosco si fa più alto e maestoso, assumendo il carattere di foresta: è segno che siamo al Vado della Rocca, nel punto più basso della lunga cresta che scende ad est dal Pizzo Deta.

Dopo una puntigliosa perlustrazione notiamo che i segnali giallo-rossi indicano un cammino nel bosco verso sinistra (nord), cominciamo a scendere nell'ampio catino naturale, fra faggi altissimi che, con le loro chiome protese a formare tetti di fogliame impenetrabile, non lasciano filtrare che pochi raggi di sole, impedendo a qualsiasi altra specie vegetale di insediarsi ai loro piedi. Cerchiamo di seguire i segnali ma il cammino è evidente, dobbianmo seguire il percorso dell'acqua in questo ampio catino naturale che, in basso, confluisce in un fosso. Così è la natura stessa del terreno a guidarci, dopo un' interminabile discesa nella faggeta raggiungiamo l'inizio di un torrente stagionale, ovviamente asciutto, percorrendone i fianchi e attraversandolo in più punti. Le ore passano e i nostri corpi sono ormai disfatti dalla fatica, incontriamo alcune mandrie al pascolo nel bosco, che ci lasciano pensare di essere vicini alla fine. Eppure camminiamo almeno un'altra ora per raggiungere un punto in cui il torrente si getta in una profonda forra, ed il sentiero scarta sulla destra allontanandosene. Giungiamo in vista di Rocca Vecchia e poi, infine, dopo oltre quattro ore di discesa, arriviamo al fontanile con il castagno, è quasi l'ora del tramonto: mentre i pendii del Pizzo Deta si fanno scuri e minacciosi nell'ombra della sera, il sole comincia a tingere di rosso le rocce del Breccioso e del Cornacchia, è ora di tornare.