header-photo

Vallone di S. Spirito, Macchialunga e Sala del Monaco da Fara S. Martino

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


Il sole è già alto sullo spiazzo polveroso a monte del paese, mentre ci prepariamo e indossiamo scarponi e zaino; di fronte a noi, maestosa, colossale, si apre la stretta fenditura del Vallone di S. Spirito, protetta ai fianchi da poderose successioni di rocce: a sinistra si levano picchi verticali, solcati da cenge e asperità, a destra una rapida gradonata di placche lisce, coricate, risale verso l’orlo dei pianori sommitali.

Ingresso del vallone

Saliamo verso l’imbocco del vallone, lasciando a destra un’ampia cavità scavata nel calcare, un ultimo, breve spiazzo assolato e siamo all’interno della spaccatura, la luce penetra appena fra le due pareti, vicinissime e leggermente inclinate; nella pietra liscia si aprono ampie fenditure a forma di conca: sono, secondo la leggenda, le tracce delle gomitate di S. Martino, che avrebbe aperto quella stretta insenatura per consentire agli abitanti di Fara di raggiungere i pascoli montani.

Pochi passi nella luce grigia, crepuscolare, e riusciamo allo scoperto, nei pressi degli ultimi resti dell’antico convento di S.Martino, poche pietre in realtà, la sommità di una torre ormai coperta dagli sfasciumi e dalle brecce; si sale ripidamente, mentre un acre profumo di liquirizia pervade l’aria: tutto intorno sono sparsi cespuglietti di elicriso, dall’esile stelo color bianco-grigiastro, a fiorellini gialli, che spandono il caratteristico odore.

Vallone di S. Spirito

Più in alto raggiungiamo la prima, gradita, copiosa fontana, nei pressi di una caratteristica apertura nella pietra rossastra: ci rinfreschiamo un po’, la giornata è torrida e la quota bassa, unitamente alla posizione incassata del vallone, non ci aiutano di certo. Proseguiamo, finalmente il paesaggio si apre un po’, saliamo a sinistra e poi, bruscamente, verso destra, al centro di uno spiazzo popolato di alberelli di carpino, per la prima volta leviamo gli occhi dal sentiero, lo spettacolo è superbo: la roccia è la vera protagonista di questo ambiente, tutto intorno poderose placche calcaree si alzano verticali per centinaia di metri, a volte completamente lisce, a volte interrotte da diedri e tetti spioventi; alla vista di simili pareti si prova un singolare senso di vertigine, quasi ci si immaginasse là in alto, in mezzo a quel mare verticale di pietra, aggrappati ad esili sporgenze, nel tentativo di risalire verso gli irraggiungibili boschi che fanno capolino dai margini superiori delle rocce.

Osservando le rocce si notano le differenti colorazioni e composizioni del calcare: grigio e compatto nelle parti in cui esso è puro, rosso-giallastro, a sua volta breccioso e quasi terreo, laddove affiorano vene marnose, nero e lucente, nei punti ove sgorgano sottili vene d’acqua, che depositano sulla roccia strati di ossidi scuri. Ancora estasiati dalla vista, proseguiamo attraverso un rado bosco, popolato di giovani piante di faggio, fino alla seconda fontana, anch’essa ricavata nella roccia. Siamo ai margini del bosco: entriamo nella foresta, ora più fitta e composta da piante dalla mole e dall’età degne di rispetto, il sentiero si inerpica, supera alcune radure prative e prosegue fino ad una gola stretta fra pareti bianche e levigate, poi ancora nel bosco fino all’ennesima fontana: qui inizia la Macchialunga, salendo sulla destra si può anche proseguire per l’alta Val Serviera, come lascia intuire lo scorcio di cielo azzurro che si apre fra pinnacoli rocciosi ornati di verdi cespugli. Proseguiamo dritti, sul fondo della faggeta, la luce filtra a malapena attraverso il fitto fogliame di questi vetusti patriarchi arborei, la sensazione di caldo ora è quasi soffocante, nonostante la quota ora sia abbastanza elevata (1100 m). Osserviamo i possenti tronchi attorno a noi, screziati da muschi e licheni dai colori tenui: applicando un calcolo empirico, come ci ha insegnato un nostro amico della Vallelonga, ne notiamo alcuni che devono avere almeno 300 anni, e ancora sono nel pieno del vigore.

Formazioni rocciose

Poco oltre incontriamo un pastore che torna dal pascolo del Piano La Casa, con la mula al seguito: scambiamo alcune parole, sulla presenza dell’acqua nella parte alta del vallone e al rifugio Manzini, pare che quest anno ce ne sia davvero poca - l’inverno ha portato pochissima neve, e le piogge sono scarsissime – spesso pensiamo che certi problemi non ci interessino, eppure anche qui in Appennino è evidente come l’effetto serra abbia i suoi effetti e come una lenta ma inesorabile desertificazione stia interessando anche il nostro paese; un’immagine si affaccia alla mente: un giorno, forse troppo lontano - per noi – la montagna dei fiori sarà simile all’odierno Caucaso, alla catena dell’Atlante.

Salutato il pastore, continuiamo in ripida salita, ormai desiderosi di uscire dalla macchia; poco dopo, fortunatamente, raggiungiamo un’ampia radura, al termine del bosco di Macchialunga, finalmente la vista spazia verso i fianchi del vallone; una cresta tormentata incombe a sinistra, dove si innalzano pinnacoli rocciosi dalle forme più disparate, e estesi ghiaioni scendono verso il fondo. Macchie di mugo si allargano in alto, tuttavia meno estese e spettacolari di quelle della vicina Montagna d’Ugni.

Cima dell'Altare (2542 m)

In alto, verso il fondo, si innalza rocciosa la Cima dell’Altare, un castello di rocce rotte e aguzze, che si sfaldano alla base come liquefatte in brecce e pietraie color ocra. Ora siamo allo scoperto, attraverso un prato insolitamente verde, popolato di aspri cardi, garofanini e fiordalisi, ronzanti di api e bombi che si spostano di fiore in fiore, attratti dai colori brillanti. Ben presto raggiungiamo una zona di rocce e pietrame, in salita fino ad una nuova fonte, non lontano dalla Grotta dei Porci, di fronte ad una proverbiale cascata di cui, oramai, rimane solo la traccia scura lasciata dal lento percolare delle acque sugli strati di roccia. . Stavolta la sosta alla fonte è davvero provvidenziale - sotto il sole di mezzogiorno – e non manchiamo di darci una bella rinfrescata e mettere qualcosa sotto i denti.

Durante lo spuntino, l’attenzione si sposta verso un colossale lastrone di roccia che si protende dal filo di cresta di fronte a noi, sospeso nel vuoto come la prua di una nave; diamo un’occhiata alla carta per vedere se quell’ardito sperone abbia un nome, sembra proprio di no: eccoci allora a fantasticare su fantomatiche spedizioni mirate ad esplorare e battezzare quell’improbabile vetta; viene proposto di darle il nome del paese di origine del nostro gruppo, e giù una sfilza di nomi pomposi: Cima Ciciliano, Croda Ciciliano, Prua Ciciliano, e via dicendo … !

La parte alta del vallone

Fra le risate riprendiamo il cammino, intersecando il piede di una frana recente, che lambisce il sentiero; a destra è il bivio per il Piano La Casa, ma noi decidiamo di proseguire diritti ancora per un po’ (l’ora è ormai tarda), per esplorare ancora un pezzetto di questo interminabile vallone. Rientriamo nel bosco, salendo fino a raggiungere una fitta macchia di mughi: l’odore intenso della resina impregna gradevolmente l’aria, le piante sono piuttosto alte, circa due metri, evidentemente la posizione incassata ha permesso loro di crescere più tranquillamente.

Siamo ormai sotto la Cima dell’Altare, ai margini dell’ampio anfiteatro che prende il nome di Sala del Monaco, scorgiamo in alto, a destra, la sagoma arrotondata del Monte S.Angelo, che sovrasta la Val Cannella. Decidiamo di fermarci, il cammino verso la vetta dell’Amaro sarebbe ancora lungo (siamo circa a metà percorso), ancora una volta restiamo incantati alla vista di quell’ambiente spettacolare, i ripidi fianchi del vallone, i brecciai, le rocce ardite tutto intorno, avvolti in un silenzio che sa di solitudine grandiosa, di spazi senza confini, di assoluta libertà.

NOTE:

un ringraziamento speciale va al sig. Giovanni Di Falco (fratello del pastore Domenico) ed all’Associazione Volontari Amici della Montagna che hanno curato la realizzazione delle magnifiche fontane che servono il percorso e senza delle quali il nostro viaggio, viste le condizioni climatiche, non sarebbe stato possibile.