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Monte Genzana (2170 m), da Castrovalva

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


Le strette vie di Anversa - fortunatamente ancora spopolate - fanno da preludio all'angusta imboccatura delle Gola del Sagittario, ancora immersa nell'ombra gelida del mattino, la strada si insinua nell'impressionante fenditura aperta fra rocce minacciosamente precipiti. Ecco il bivio per Castrovalva, la strada risale, a strette svolte, verso la luce tiepida del sole sorto da poco; è un mondo di roccia quello che attraversiamo, di sassi grigiastri, di placche screziate dai muschi, pinnacoli contorti fra cui si celano misteriose ed oscure cavità. Ad un tratto la strada attraversa la roccia, passando da parte a parte l'intero sperone che sorregge le poche case di questo borgo quasi disabitato. Eccoci all'ingresso del paese, dove parcheggiamo, scrutando curiosi i pendii del Genzana, che risalgono scuri verso il sole. La mulattiera che sale verso la montagna inizia poco prima del parcheggio, sbarrata da una catena, si innalza subito in ripida salita, con decisione, attraversando rade macchie di aceri e roverelle, dalle foglie fiammeggianti per il sole che ci è proprio di fronte e non concede visioni davanti a noi. Presto giungiamo ad un fontanile da cui l'acqua sgorga copiosa, intorno è un proliferare di muschi verdastri e alti cespugli di equiseto. Raggiungiamo una spianata, che concede un pò di riposo ai polpacci: una zona di pascolo abbastanza ampia (Prata di Castro), sormontata a sinistra da uno spallone boscoso che punta deciso nella direzione dove riteniamo si trovi la vetta.

Veduta sulla Terratta dalla prima sella

In breve siamo ad una sella ben marcata, ora il sole è sufficientemente alto da permettere allo sguardo di spaziare intorno, cercando la via migliore: di fronte a noi si apre una vistosa depressione erbosa, con qualche rada macchia, oltre la quale si innalza una evidente sella che lascia intuire un collegamento con la cresta sommitale. Siamo indecisi se scendere e poi risalire alla sella, ovvero mantenere una linea a mezza costa, risparmiando sul dislivello, poi un nostro "scout" individua un sentiero inequivocabile che si apre sulla sinistra, mantenendo la quota.

Basta fare pochi passi ed eccoci di fronte ad una magnifica veduta sulla Terratta, sulla nostra destra, in corrispondenza di un profondo vallone che scende verso la valle del Sagittario: indubbiamente una montagna imponente, solcata da valloni complicati, ammantata di boschi rossicci di faggio. Procedendo a mezza costa ci imbattiamo nei primi segni del sentiero, una segnaletica rudimentale in verità, fatta di spezzoni di nastro bianco/rosso appesi dove meglio capita. D'un tratto la vegetazione si fa più fitta, s'ode un lieve fruscio, non è il vento: siamo ad un fresco ruscello che scorre in una minuscola gola, circondato da robuste piante di faggio, lo attraversiamo cercando di risalirlo per giungere alla sorgente Faete che, come dice il nome, non può che trovarsi nei pressi di un boschetto di faggi.

La cappellina dell'Immacolata

Infatti eccola, dopo poco, apparire in mezzo ad un prato verdissimo; qui incontriamo anche un cacciatore taciturno che non sembra molto pratico della zona. Salendo ancora ne scorgiamo un altro, appostato sopra uno sperone in attesa di stanare chissà cosa: la solita scena - degna quasi di compassione - del cacciatore senza prede, per il resto della giornata non sentiremo neanche una fucilata ... Ancora un breve strappo ed eccoci finalmente seconda sella, presso la quale sorge la cappellina dell'Immacolata, quasi una "cona" [1] di pochi metri quadri: nell'interno è un'immagine della Madonna e alcune vecchie foto.

Sorvolando sulla presenza di un bruttissimo ripetitore, eretto con sagacia proprio di fronte alla chiesetta, si tratta di un luogo davvero incantevole, da scampagnata domenicale, senz'altro consigliabile a chiunque voglia concedersi una passeggiatina di un paio d'ore, e godersi dei magnifici panorami. Infatti, proprio oltre la sella, si apre la vallata di Scanno, con il lago che appare di un colore blu cupo, immobile, e poi le case del paese, con i camini sbuffanti. Più vicino a noi è l'abitato di Frattura e le case sparse di Frattura Vecchia, proprio al margine della grande frana di cui, da qui, si intuisce l'orlo ricamato di rocce aguzze.

Panorama sulla Valle del Tasso

L'impressione generale è di una grande, assoluta, calma: nulla sembra muoversi sotto di noi, ferma è l'acqua del lago, priva della pur minima increspatura, ferme le foglie degli alberi, le volute di fumo sopra le case del paese, completamente terso il cielo sopra di noi, assolutamente privo di vapori. Un silenzio quasi irreale ci circonda e ci avvolge suggerendo una sensazione di sospensione, di vuoto, che aumenta guardando verso l'alto, verso gli uniformi pendii che risalgono verso la vetta.

Eppure, in qualche modo, è proprio il tipo di emozione che mi aspettavo da questa montagna: un regno di silenzio e di isolamento, un ponte proteso verso la calma azzurra e indifferente del cielo. Ci consultiamo brevemente sul percorso da seguire, poi scorgiamo ancora i segni: si tratta di risalire il cocuzzolo aguzzo sulla nostra sinistra (nord) che prende appunto il nome di Monte Cona. Ci incamminiamo sul pendio che qui si fa davvero ripido e punteggiato di roccette, d'inverno deve essere un tratto piuttosto impegnativo. Risalito il costone per circa la metà della sua altezza, il sentiero si inoltra alle sue spalle, scoprendoci una larga depressione che ci separa dalla dorsale principale del monte. Si prosegue a mezza costa, lungo un taglio spesso intasato di fogliame scivoloso, poi si risale fino a raggiungere un'ampia "schiena" che collega il Monte Cona con il fianco vero e proprio del Genzana. Ora la via appare evidente, lassù è certamente la cresta sommitale, ma la vetta, a giudicare dalla carta, deve essere oltre, ancora invisibile. Una successione di ometti segnala il percorso più agevole, si tratta di risalire l'interminabile pendio che rimonta verso la cresta, poggiando un pò verso destra ma senza puntare il profondo vallone che scende verso Frattura Vecchia. Alle spalle la veduta è già eccezionale: tutta la catena del Gran Sasso, spolverata di neve, e poi il Velino ed il Sirente in successione. Guardando da qui, sembra proprio di trovarsi sulla verticale di Castrovalva, e questo ci dà un'idea del dislivello che abbiamo percorso. Al di là delle Gole, la Montagna Grande si presenta come un vasto altipiano brullo e gibboso, un luogo ideale per una "ciaspolata" invernale, invece la mole del Pizzo San Marcello, che da Anversa sembrava assai aguzzo e interessante, si schiaccia contro il fondo perdendo la sua personalità; appena sopra i pianori della Montagna Grande, anche il Viglio vuole dire la sua, presentandoci i suoi fianchi olivastri.

Salendo alla vetta: sullo sfondo il Velino

Ma la visione che mi attrae di più è il pendio, monotono e uniforme, che si staglia davanti a me: uno sconfinato pratone secco e giallastro che sale su fino a fondersi col cielo. E' un paesaggio apparentemente scarno, brullo, disadorno, tuttavia carico di grande fascino: sospingo lo sguardo scorrendo tutto il pendio sino al punto dove la cresta tocca il cielo, celando chissà quali visioni al di là: è un'immagine che evoca una sensazione vaga, indefinita, di serenità ineffabile e intangibile che parla solo al cuore, e scompare proprio un attimo prima che la mente riesca a farla sua, a comprenderla coscientemente. Non resta che salire e scoprire ciò che è al di là. Ma il passo non corre agile come il pensiero, e ben presto mi trovo in seria difficoltà, a corto di forze e di fiato.

Davanti a me i due "Mauri" camminano di gran passo, conversando amabilmente, io rimango a qualche centinaio di metri, incapace di raggiungerli, gli altri sono ancora più dietro: ognuno è da solo nella sua salita, ed ognuno ne riceverà un'emozione diversa. Per me ora torna a prevalere una ben più fisica fatica, procedo a scatti: pochi passi ed una sosta; probabilmente lo zaino è troppo carico, troppo vestiario per una giornata autunnale dal clima insolitamente tiepido. Ma ben presto mi accorgo di aver giudicato troppo in fretta, avvicinandosi alla cresta si alza un vento piuttosto violento e gelido, che suggerisce di non indugiare troppo nelle pause. Guadagno la cresta arrancando, raggiungo i fuggitivi, che hanno abbassato il ritmo del loro incedere, e ora so che la vista della meta mi darà nuove forze, ma dov'è ? In effetti la cresta prosegue sinuosa con vari rialzi ed è difficile individuare il cocuzzolo più alto.

Panorama sulla Majella

Seguiamo il filo, verso sud-est, senza guardarci intorno, senza concedere occhiate allo spettacolo che già da qualche minuto si apre ad oriente. Un primo, evidente, cocuzzolo riporta un paletto ma non è la vetta: eccola invece, più in là, alla sommità di un ultimo, breve, pendio. Finalmente ci siamo, ci possiamo abbandonare fra i sassi, a contemplare lo spazio intorno. Ecco davanti a noi, ad est, la Majella in tutta la sua estensione, tinta dei colori forti dell'autunno: il rosso ramato dei faggi, il giallo dei prati stepposi, il bianco di esili bave di neve.

Poi le cime minori, il Morrone, il Pizzalto, il Rotella, e poi gli altopiani maggiori d'Abruzzo: il Quarto Santa Chiara, le Cinque Miglia. In linea col Genzana, verso sud, si alza elegante il Greco, al culmine di ampie vallate desolate, che sembrano promettere una solitudine almeno pari a quella che stiamo vivendo adesso. Poi i monti del parco irrompono con la loro irregolarità: le creste della Valle Orsara e del Marsicano, gli speroni rocciosi della Meta e del Petroso, ancora la Terratta, più vicina e imponente, precipite sul lago di Scanno.

Grifone in volo

E poi, lontano ad occidente, il Cornacchia, il Pizzo Deta, il Viglio in una successione evidente che rende bene l'idea della continuità del territorio appenninico e rispolvera nella mente un vecchio progetto, l'idea di percorrere e unire tutte quelle creste, dai Simbruini alla Majella, con una grandiosa traversata. Mentre ci perdiamo nella contemplazione appare all'improvviso nel cielo un'ombra maestosa, un grifone imponente gira sulle nostre teste, col collo incassato, il capo spelacchiato, il collare di bianche penne che fanno da contrasto con il piumaggio bruno uniforme delle ali e del corpo; si scorgono bene le zampe, anch'esse piumate di bianco, che terminano con potenti artigli.

Ecco aggiungersi altri due esemplari, si uniscono in formazione verticale, sono in cerca di qualche carogna lungo questi sconfinati pendii frequentati da ovini e caprini. E' davvero un peccato dover ridiscendere, abbandonare questo balcone straordinario, quest'atmosfera solenne che ci circonda, ma il tempo non è molto ed il vento ci sferza pesantemente. La discesa è tutt'altra cosa, impensabilmente veloce. In tre ore siamo al paese, ma quaggiù è quasi buio, il sole è sceso dietro la Montagna Grande ed il gelo è nuovamente piombato nella valle, solo lassù gli alti pendii del Genzana sono baciati ancora dalla luce sanguigna del tramonto e splendono di tonalità rosa e vermiglie, e vorrei essere ancora là in alto, a contemplare quella visione di fuoco. Il viaggio di ritorno non meriterebbe accenno se non fosse che, scesi in auto sulla strada delle gole, siamo bloccati da un gregge monumentale che i pastori hanno indirizzato placidamente sulla viabilità "ordinaria" paralizzando il traffico: e così se ne va via una buona mezz'ora di strada percorsa a passo di ... pecora !

NOTE:

[1] una cona è una piccola costruzione, edicola o tabernacolo, che ospita un'immagine sacra o una statuina (da icona), credibilmente la chiesetta dà il nome anche all'elevazione soprastante