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Cima delle Malecoste dalla Valle del Vasto

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


Vedere l’interminabile, colossale spalla che dal Vallone della Portella arriva fino al Monte S.Franco, immensa tela verde, ci aveva sempre intimorito quando passavamo per Assergi andando verso il Passo della Capannelle. Su di essa svettavano alcune potenti cime, il Cefalone, le Malecoste, Pizzo di Camarda e subivamo l’impressione di una dura, interminabile fatica se avessimo provato a risalire quella ripidissima costa priva di una minima ombra, ben oltre 1000 metri di dislivello per arrivare sul filo di cresta. Pur tuttavia una volta decidemmo, partendo senza indicazioni precise, di “suicidarci” attaccando quell’enorme bastione dall’Acqua Bernardo (1280 m.), lungo la valle del Vasto, procedere in diagonale destra su vecchie piste per arrivare alla sella e poi alla cima delle Malecoste.

La cresta delle Malecoste con il Cefalone

Sapevamo che due sterrate portavano dalla valle fino alle creste dalle quali poi con una lunga traversata potevamo arrivare allo stesso posto, ma la cosa non c’interessava minimamente: volevamo vivere quel mare d’erbe ripidissimo, calpestare, fin dove le forze ci consentivano, quella lunga barriera senza peraltro sperare di provare sensazioni particolari se non quella della fatica. Le cose però andarono diversamente, per fortuna, perché la sensibilità ormai acquisita di scrutare con occhi “speciali” quest’universo particolare ci ripagò pienamente.

Così, un sabato di fine giugno, dopo un caffè a Fonte Cerreto, pazzescamente tardi con il sole alto delle nove passate, lasciate le vetture qualche chilometro dopo Assergi, in sei cominciammo a salire in prossimità di una fonte ombreggiata da alberi. Risalimmo subito un piccolo colle incontrando un fontanile asciutto. Ci mettemmo su un dosso cercando un preciso orientamento, avvistammo un capanno poco più in alto (probabilmente il rifugio Preta di Francuccio), lo raggiungemmo, credemmo di aver trovato un passo che invece si spense subito ed allora, a vista, traversando un paio di valloncelli, volgemmo a destra continuando a salire.

Fioritura di Arnica

Vedevamo altissimi, l’arco della sella e le rocce della cima della Malecoste, allucinazioni appese al cielo, una sfida sotto quel sole bruciante. Un’ora di faticosa salita ci portò sotto un altissimo cono di un magnifico verde la cui ripidità sembrava caderci addosso: sospesi ed inquieti su quell’enorme pendio, avvertimmo una sensazione di galleggiamento quando, alzando la testa, vedemmo alte nuvole sfilare veloci e contrarie oltre le rocce sommitali e tutto il monte sembrava muoversi come una gigantesca motonave. Andavamo per una dura pendenza, salendo avevamo trovato aria fresca e l’umidità rinvigoriva il colore delle erbe che, piegate da una leggera brezza, ondeggiavano lunghe, come un mare, sfumando in molteplici tonalità.

Stavamo ritrovando, pur minuscoli e confusi in tanta grandezza, le ragioni della nostra passione, non solo la fatica ma la capacità di “vedere”. Non un arbusto, non un albero, ma erbe, solo erbe arrampicate punteggiate da mille fiori. Eravamo nella fascia media della costa, la più umida, avvolti, sprofondati in un cupo, incantevole smeraldo.

Peonia officinalis

Il passo non trovava quiete, ci dominava un silenzio quasi sacro rotto dal fruscio dei prati, la caligine della valle negava profondità allo sguardo. In un’incassata depressione trovammo una lunga fila di piccoli garofani dal blu/viola acceso, taglio sanguigno sul verde; traversando in salita la breccia dannata di un costone gibboso scoprimmo, la prima volta per noi, la meraviglia rossa di una solitaria peonia selvatica. Sul ripido pendio ci disperdemmo, qualche roccia ci stava dividendo, ci ritrovammo poco oltre dopo aver rubato alle pietre una fugace ombra. In prossimità delle creste spianammo dopo aver “tirato”quasi in perpendicolare, eravamo in alto ma le Malecoste erano ancora lontane.

Un esteso, profondissimo pendio tagliato da numerosi valloni calava ripido dai nostri piedi fino alla lontana valle e come da una foto aerea scorgemmo le tracce degli antichi sentieri della transumanza risalire sinuosi quegli erti fianchi. Passammo sotto il Pizzo di Camarda e calpestando a lungo incerti passi ritrovammo una vecchia traccia che su terreno umido risaliva diagonale l’impennato vallone appeso alla sella delle Malecoste (2229 m.).

Monte Corvo (2623 m)

Prendeva forza il vento rimontando dall’altro versante, turbinava dolce frastornando il volo di un leggero gheppio, le erbe si dispersero fra le pietre, queste presero il sopravvento sul taglio di cresta oltre la quale in progressiva emersione s’innalzava, come alla Creazione, grondante di polveri e brecce, la massiccia mole del Monte Corvo (2623 m.) sostenuta da arcuati e potenti sedimenti calcarei. Uno spettacolo impressionante, d'inaspettata bellezza, un’immensa, spettrale nave il cui ponte di comando, la vetta, era sorretto da paratie di massiccia roccia a picco sulla sella del Venacquaro. Ai piedi di questo re, l’alta Valle del Chiarino calcinata dal sole mordente, abbacinante per il biancore delle pietre nude levigate dal gelo in un contrasto violento con il verde ossessivo che ci aveva accompagnato fino allora.

Sostammo alcuni minuti a goderci quel monumento, seduti sulla corda sospesa della cresta che si allungava dal Cefalone al Camarda. In basso verso nordovest i verdi faggi della valle, in profondità il luccichio del lago di Campotosto sotto i monti della Laga. Poi cominciammo a risalire il cono finale su un sentiero ora chiaro, fra primule orsine, sassifraghe e genziane nivali. S’innalzava il pendio sul filo degli abissi e, sotto l’occhio severo del Corvo, arrivammo sulla cima delle Malecoste (2444 m – 4,5 ore): eravamo sulle spalle di un gigante del gruppo del Gran Sasso, non il maggiore certo, ma la sua posizione defilata ci permise di vedere tutto ciò che c’era oltre quel verde sipario. Giungemmo stremati, “cotti” dal sole ma bastò un solo sguardo per lenire ogni fatica.

Cima delle Malecoste

Analoga, ma sicuramente più forte sensazione dovettero provare i primi “scopritori” una volta pervenuti, soprattutto dal versante aquilano, a certe quote. Non che fosse la prima volta che accedevamo ad una cima del gruppo ma quella posizione offriva, di quell’incredibile laboratorio della natura, una visione totale d'emozionante grandiosità. L’Appennino Centrale trovava in quel posto il coronamento della sua bellezza e le circostanti catene del centro Italia, tutte visibili, sembrava rendessero omaggio a tanto fulgore.

Dai boschi di fondo valle, verdi e cupi, risalivano gigantesche spalle di roccia inarcandosi sulle alte valli del Chiarino, del Venacquaro, della Val Maone, di Campo Pericoli e sullo sterminato pianoro di Campo Imperatore, regni d'erbe, fiori, laghetti primaverili e del pietrisco abraso dalle pareti delle sovrastanti cime, folla di muti ciclopi dominati dal Corno Grande, che s’ergevano svettando come minacciosi fantasmi lasciando sui loro immensi fianchi lunghissime colate di pietrame polveroso, vertiginose placche di calcare, piccoli e sospesi pianori, esili cenge. E ovunque il taglio di un sentiero, segno della curiosità e dell’irrequietezza umane, un’ansia sgusciante fra rocce incerte, nevi infide, pietre aguzze e faticose brecce, sotto paurose pareti e su pendii ed abissi infiniti. Dagli appesi valloni di cresta scendevano profonde lingue di neve in luccicante liquefazione.

Alta Val Chiarino

Non un rumore se non il vento, le nostre parole ed il verso di qualche uccello; sotto quel sole implacabile una straordinaria creazione della natura si era rivelata ai nostri sguardi contrastando con il grigio algido delle sue colossali pietre l’azzurra cornice del cielo terso. Ripartimmo verso il tardo pomeriggio e fu un'interminabile fatica quella lunga traversata a scendere su insidiose erbe dalle quali, scivolando a volte, venivamo quasi sepolti. Incontrammo ancora cespi fiammanti di peonie poi rientrammo nella rada macchia di fondo valle.

Il sole, nel suo rosso crogiuolo, ardeva sui nostri volti bruciati, di colpo si nascose dietro il lontano Terminillo e ne ricamò le creste sfrangiando luci rosate sulla vetta d'ogni montagna. Il piano cadde nell’ombra e perse colore intristendo i nostri animi. Riposammo a lungo all’arrivo e salimmo sulle vetture quando il crepuscolo, nascondendo ogni immagine, rese meno malinconico il distacco.