header-photo

Monte Marsicano (2245 m) da Pescasseroli

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


Sabato sera: la pioggia scende fitta incessante dal cielo grigio e compatto, la temperatura è scesa bruscamente, dopo i giorni torridi d'agosto; un rapido consulto telefonico rimbalza fra Roma, Ciciliano e Camerata, sembra proprio impossibile tentare il Marsicano il giorno seguente, la partenza viene posticipata - inutile alzarsi presto per guardare le nuvole - l'idea è di raggiungere Pescasseroli per una passeggiatina, magari anche sotto la pioggia, e poi dirigersi verso l'abbacchio porchettato ed il salame di pecora ad Anversa (degli Abruzzi, ovviamente), tanto siamo di strada ! Il mattino seguente, a Carsoli, siamo stranamente solo in quattro - l'uscita a base di ovino non ha convinto il resto del gruppo - e poi, cosa ancor più strana, contro ogni previsione il cielo è assolutamente sgombro, limpido, perfetto; gli zaini sono carichi come al solito, ma ormai la meta più ambita è la sedia al ristorante. Eppure raggiungiamo Fucino ancora sotto il sole, osservando un lontano fronte nuvoloso, incedente da nord, e sperando che arrivi al Parco prima di noi.

Ciombolino comune (Cymbalaria muralis)

A Pescasseroli ci perdiamo l'accesso 'A' e ricorriamo al provvidenziale ufficio di zona del parco: la via è chiara, alla fontana antica (quella con le cannelle a forma di orsetti) si prende a destra, oltre il ponticello sul Sangro, per una carrareccia. Passiamo una serie di insediamenti rurali, poi la strada si fa più accidentata e incerta; ecco sul ciglio un uomo dal sapore antico: un vecchio pastore bruciato e scavato dal sole, gli occhi inaspettattamente azzurri e profondi, col classico bastone uncinato ed il fedele cane sempre al fianco; ci dice che si può proseguire solo un altro pò, e a noi questo basta. Oltre infatti è l'accesso A e si parcheggia.

A piedi si sale attraverso una zona degradata fino ad una gola, una magnifica stretta inghiottita nel bosco - la Canala appunto - sulla sinistra caratteristiche lame bianche di calcare si alternano a ripidi pendii completamente ostruiti di foglie di faggio che versano nell'alveo di un torrente asciutto, l'ambiente è molto bello, misterioso nella luce cupa che penetra tra i faggi, ricorda un luogo già visto, probabilmente sui Simbruini, peccato per la sterrata un pò troppo invadente. Più in là si attraversano una serie di radure, senza capire bene da che parte sia l'attacco verso la vetta, un primo sentiero si stacca sulla destra (A9) ma non fa al nostro caso. Ecco dopo un pò l'ampia radura di Prato Rosso, qui si intuisce l'apertura sulla destra che conduce verso il circo glaciale sommitale del Marsicano; infatti il nostro sentiero (A6) biforca in quella direzione e prosegue su una carrareccia fangosa.

La forra della Val di Corte

Ci inoltriamo nella faggeta, in salita, seguendo non frequenti ma sufficienti segni rossi freschi di vernice: uno sguardo attento fa scorgere, in mezzo alla fustaia regolare dei faggi, peraltro abbastanza giovani, strane conifere dall'aspetto quasi arbustivo: sono piante di Tasso (Taxus baccata), dai caratteristici rami cadenti, coperti di fitto fogliame aghiforme, di colore verde cupo; spuntano qua e là fra i faggi, come degli spettri malinconici, costretti dalla prepotenza del faggio al buio del sottobosco. In effetti si tratta di un albero ormai piuttosto raro, un tempo ve ne erano molti - lo raccontano anche i vecchi boscaioli di Camerata, che li usavano per farne travi per i soffitti delle case - gli unici che ho visto, oltre a questi, erano al Pozzo del Gelo, vicino Camposecco.

La pista si restringe sempre più, sino a confluire nel greto di un torrente secco, cerchiamo dei segni che ci conducano verso il bosco, su fondo più agevole: niente da fare, dobbiamo passare proprio in mezzo al fosso, in mezzo a grossi massi smussati, pietre mobili,  ortiche repulsive. Non ci voleva, è davvero faticoso risalire per quel budello, bisogna saltare da un masso all'altro, imitando inadeguatamente la grazia e l'eleganza dei camosci, il passo è irregolare, snervante, severo con ginocchia e polpacci. Credevamo che la Val di Corte fosse una delle solite vallate appenniniche, ci troviamo invece in una forra soffocante, dall'aspetto quasi tropicale, non fosse per i faggi che troneggiano a destra e sinistra, in alto, chiudendo ogni visione. Si vede che il luogo è umido, nonostante l'assenza di acque superficiali, vi crescono rigogliose le comuni piante (quale sarà mai il loro nome ?) dalle larghe foglie sistematicamente bucherellate da un prolifico maggiolino verde metallico, che sembra vivervi in simbiosi: questi due - foglia e maggiolino - li ho visti sempre insieme, evidentemente la pianta ne ricava qualche beneficio, pur pagando un caro prezzo al vorace ospite.

Il primo circo glaciale del Marsicano

La scalata prosegue, su fondo sempre peggiore, mentre nel frattempo l'unico scorcio di cielo visibile davanti a noi testimonia un rapido addensarsi delle nuvole verso i crinali sommitali, una promessa di pioggia. Ormai siamo nel fosso, troppo in alto per tornare in paese in tempo per il pranzo e troppo in basso per credere di poter concludere qualcosa. Il fosso è interminabile, sempre più angusto, stretto anche da placche rocciose e ripidi boschi, impraticabili. Viene voglia di rinunciare, almeno per prendere meno acqua nella discesa, perché tanto una bella calata sotto il temporale non ce la leva nessuno.

“Usciamo almeno dalla forra, per vedere cosa c'è sopra” -- dice qualcuno -- in effetti, dalla conformazione del terreno, la fine del fosso non sembra lontana. Ma questo slancio esplorativo ci costa almeno altri venti minuti di acrobazie nel greto. Finalmente ne usciamo, raggiungendo una conchetta sormontata da dossi erbosi: il cielo è scuro, ormai completamente coperto, ma la visione è grandiosa: siamo ai piedi del circo glaciale del Marsicano, un grande arco roccioso cinge tutt'intorno la depressione, calandovi con sfasciumi e ghiaioni; la vista spazia anche verso nord, su magri e desolati crinali che si snodano verso la Terratta. Sembrano riflettere il cupore del cielo i pascoli scuri, aridi e assetati che giacciono intorno.

Veduta sulla Valle Orsara

Però la via ora è chiara, il sentiero si vede inerpicare verso sud, salendo ad una cresta che punta verso quella che, a prima vista, sembra la vetta. Certo il cielo è davvero scuro, ma la nuvolosità è rotta, in rapido movimento, sospinta da un vento piuttosto sostenuto in quota: decidiamo di proseguire, consapevoli che, al primo accenno di temporale, dovremmo precipitarci giù verso il bosco, l'eventualità di fulmini su queste creste esposte e prive di ripari è abbastanza preoccupante. Insomma saliamo, verso le brecce detritiche sulla nostra destra, che attaccano la cresta nel punto più basso; nella fretta della salita c'è tempo per scambiare un gruppo di cespugli marroni per un branco di camosci, con tanto di verifica al binocolo !

Le brecce sono abbastanza ripide ed il sentiero non è proprio ragionevole nello scegliere le colate più mobili e faticose, per fortuna non c'è esposizione ed al più si rischia un ruzzolone pirotecnico verso valle. Finalmente, attraversando un ultimo, piccolo intaglio roccioso siamo in cresta, di fronte ad un repentino cambio di panorama: sotto di noi un'estensione di prati cala ripidamente verso la vallata del Sangro, verso l'abitato di Pescasseroli. Questo versante è molto caratteristico, uno scivolo d'erbe interminabile che si allunga da nord-ovest a sud-est costeggiando la valle. Il vento ci sferza violentemente, la temperatura è piuttosto bassa, seguiamo le tracce in salita, affacciandoci di tanto in tanto verso gli strapiombi di rocce spezzate che calano verso la Val di Corte.

Il M. Amaro di Opi e la Camosciara

Ma il sentiero non punta verso l'elevazione che ci sembrava la vetta: delusione ! La cima è ben oltre, nascosta alla vista, come testimonia l'andamento della pista che, dopo un primo rialzo, prosegue a mezza costa puntando non si sa bene dove: il morale ridiscende a zero, dopo l'entusiasmo suscitato all'uscita del fosso ed alla vista dell'apparente meta della nostra fatica. Del resto, le gambe fanno davvero male, provate da un'ora e mezza di salti nel greto del torrente ed ora sferzate dal vento e dal gelo che indurisce i muscoli e acuisce il dolore.

Scorgiamo nella valle i tetti rossi di Opi, arroccati sul piccolo cocuzzolo, ragionando un pò intuiamo che la vetta è più o meno in linea con il paese. Proseguiamo oltre, fino a scorgere lontano un mucchietto di sassi quasi irraggiungibile, al termine di una interminabile galoppata a mezza costa: la reazione è al limite del terrore, nessuno ha più la forza di permettersi un lusso tale anche se è davvero un peccato lasciare la vetta laggiù, nella sua solitudine. Decidiamo di procedere fino ad incrociare un vallone marcato che scende verso Opi.

Foto di vetta

Ma ecco la veduta risolutiva: la vetta non è quella che vedevamo avanti e lontana, ma è sopra di noi, oltre una piccola sella, segnata da un imponente, inequivocabile e rassicurante ometto. Ci trasciniamo spinti più dalla volontà che dalla forza fisica fino alla sella, dove spuntano dal nulla i famigerati segnali bianco-rossi del sentiero Italia, vera leggenda dell'escursionismo, che qui in Abruzzo si raddoppia, triplica e quadruplica a piacimento, nel tentativo di includere tutte le numerose dorsali montuose ricadenti nel territorio regionale.

Restiamo sorpresi nel notare che in realtà il Marsicano possiede due circhi glaciali, al pari del Velino, ed ora siamo sopra il secondo, la testata della Valle Orsara, riserva integrale e inaccessibile. Ancora pochi passi e siamo all'ometto della vetta, ce l'abbiamo fatta contro ogni previsione. Anche se guastato dal tempo cattivo e dalla visibilità non eccelsa, lo spettacolo è magnifico, insolito, solitario, svettante e dominante sopra i rilievi circostanti: quasi come da un aereo vediamo le balze repulsive (per gli umani bipedi, non per gli ungulati) della Camosciara, la Serra delle Gravare e la Val Fondillo, la cresta affilata e dentellata che prosegue vero il Petroso, l'Altare ed il Tartaro, sfumando poi nella Meta, più immaginata che vista, persa com'è nei vapori plumbei.

Tramonto dal valico di Gioia Vecchio

Poi più in là il Monte Tranquillo, la Macchiarvana, le rocce del Serrone, i cocuzzoli dello Schiena Cavallo e delle Vitelle. Verso est, precipitiamo lo sguardo nell'arida conca che chiude la Valle Orsara, nella speranza di scorgere qualche orso o camoscio più sfrontato di noi: no, sono tutti a casa, al calduccio ! La cresta del Marsicano prosegue con bei salti rocciosi, che purtroppo nascondono alla vista lo specchio d'acque di Barrea, oltre si eleva la costiera lunga ed uniforme del Monte Greco, mentre complessi rilievi, più vicini, nascondono la valle del Sagittario ed il lago di Scanno.

Il pranzo non è al ristorante, ma è altrettanto prelibato, condito da una fame autentica: pizza rossa e fritta di Camerata e pregiato caciocavallo dell'Irpinia, il tutto impreziosito da una vista impareggiabile e del tutto meritata. Poi le prime goccioline (ma è solo un bluff) e si ridiscende: fino a sera non prenderemo neanche una goccia. Anzi, all'arrivo il cielo si va riaprendo e, scendendo in auto verso Fucino, godendo della magnifica veduta offerta dal valico di Gioia Vecchio, un magnifico tramonto sui Simbruini, sfiorati da vapori arrossati e fiammeggianti,  ci rasserena e rappacifica nell'animo e nel corpo, stanco ma felice.