header-photo

Monte Morrone (2141 m), da Cartore

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


Il gigante appare già all'uscita dell'ultima galleria, nell'aria vagamente offuscata dall'umidità del primo mattino, possente sulle solide radici ammantate di boschi rossastri, solcate dalle cicatrici di fossi profondi, mai toccati dai raggi del sole. In alto, al termine di una salita che sembra da qui interminabile, egli mostra spavaldo i suoi pendii ghiacciati, accecanti nella prima luce mattutina, adornati di sottili fascie di roccie orizzontali. Meno di un mese fa eravamo lassù, al centro di quella distesa bianca, salendo lentamente su un lenzuolo di neve e ghiaccio increspato dal vento in piccole onde immobili, magicamente affascinati dalla sommità coronata di rocce e sfasciumi, oltre la quale troneggiava un cielo di ineffabile azzurro; ma era troppo tardi, passate già le due, e decidemmo di riscendere e tentare in seguito, aspettando l'allungarsi delle giornate e lo scioglimento delle nevi a bassa quota. Eccoci dunque all'imbocco della sterrata per Cartore, percorriamo le infinite curve che salgono verso il remoto aggregato di case; uno scoiattolo sosta su un albero ai bordi della strada, così immobile da sembrare un peluche, cerca di assorbire tutto il calore dei raggi radenti del sole, poi infine ci vede e scatta fulmineo verso l'alto delle chiome, mostrando a tratti il ventre candido che contrasta col mantello completamente nero.

Salendo nel bosco

Lasciamo l'auto presso il borgo, e prendiamo il sentiero per il Lago della Duchessa, ignorando il bivio per la Valle Fua e proseguendo diritti verso la Valle Cesa. Fortunatamente, a differenza del nostro primo tentativo, la strada è sgombra di neve e il passo è agevole. Dopo una lunga diagonale, con bella vista sulla piana circostante, entriamo nella valle vera e propria, seguendo la sterrata che si insinua ripida, con decisi tornanti, nella stretta fenditura scavata da un fosso nei fianchi della montagna. Il percorso è abbastanza monotono, l'ambiente piuttosto disturbato dalla strada che avanza fra evidenti disboscamenti, l'unica soddisfazione sta nel notare come si guadagni quota facilmente, e ad ogni tornante ci si veda più alti sulle pianure del Salto e del Cicolano.

Presto incontriamo la prima neve, si rallenta un po' il passo e vale la pena inforcare le racchette, poi finalmente la strada spiana e si incunea in una stretta gola intasata di neve: nel tratto più angusto i ripidi fianchi della forra sembrano volersi scrollare subitaneamente del pesante manto gelato che li opprime, procediamo in silenzio, con riverenza. Finalmente, dopo circa due ore di salita, usciamo dal bosco in una piacevole e inaspettata radura, proprio di fronte al versante sud del Morrone, che sembra così a portata di mano. Cerchiamo subito di individuare una linea di salita opportuna, a differenza della volta precedente saliremo sulla sella a sinistra per poi raggiungere in diagonale la cresta sommitale in corrispondenza di una serie di grandi formazioni rocciose, simili a enormi denti grigi sul filo regolare del crinale. Ripartiamo, attraversando la pianura in direzione della vetta (nord), e passando accanto ad un enorme masso erratico piantato proprio in mezzo allo spiazzo e proveniente da chissà quale fianco della montagna, in chissà quale epoca.

Dalla sella: veduta sul Murolungo

Presto rientriamo nel bosco, seguendo una debole traccia di sentiero: il silenzio è totale - non fosse che per i nostri passi - tutto sembra immobile, i rami degli alberi sottilmente ornati di scie di ghiaccio e penduli licheni dal colore verde pallido, lasciano intravedere i crinali intorno come attraverso una finestra arabescata. Dopo un primo tratto pieghiamo nettamente a sinistra, presso una minuscola radura, puntando in netta salita verso il crinale che sale a formare un ampia sella sotto la cresta sommitale del Morrone e perpendicolare ad essa.

Curiosamente, su alcuni alberi sono rimasti dei vistosi “cubi” di neve non disciolta che incombono minacciosi sul sentiero, come improbabili seracchi; sfiliamo sotto di essi velocemente. Poi la salita si fa più ripida, si esce dal bosco in uno spiazzo dal candore abbacinante, il bianco è assoluto, interrotto solo da piccoli cespugli o alberelli isolati. La vista si apre alle nostre spalle sul crinale che salimmo la volta precedente, rispettivamente sulla sinistra orografica della Valle Cesa, crinale che costituisce anche lo spartiacque fra questa e la Valle Fua. Ora si sale a fatica e presto la ripidità rende le racchette inservibili, oltre che pericolose. Così ci tocca una faticosa marcia nella neve profonda anche più di un metro, dove non è raro affondare sino alla cintola, inghiottiti fra le braccia di un ginepro nascosto o, peggio ancora, lungo i fianchi infidi di rocce sepolte.

Verso la cresta sommitale

Questa marcia è una vera tortura, ogni passo toglie il fiato e ogni affondamento è una dura prova per la nostra forza di volontà, ma ormai ci siamo abituati e, anche se con fatica, raggiungiamo finalmente la sella. Lo sguardo finalmente può spaziare su distanze più congeniali: in basso la piana non offre un grande spettacolo, mentre ad est ll triangolo roccioso e incrostato di neve del Murolungo è una visione esaltante, lungo i suoi fianchi si scorgono lunghe scie increspate che fanno pensare a violente slavine precipitate sulla valle sottostante. Davanti a noi è il ripido pendio che conduce alla cresta sommitale, prima di affrontarlo ci fermiamo a prendere fiato, approfittandone per infilare i ramponi. La pendenza è sostenuta, ce ne accorgiamo guardandoci alle spalle, la neve a tratti è molle e cedevole, a tratti ghiacciata e piuttosto dura.

Procediamo lentamente, con passo regolare, badando di piantare bene piccozza e ramponi, fortunatamente il pendio è abbastanza pulito e non ci sono grosse rocce sporgenti sotto di noi. Man mano che saliamo la vista si apre di più sul Murolungo e l'alveo della Duchessa: i versanti a nord sono ancora stracarichi di neve, sormontati da pesanti cornici pensili; tutto il paesaggio intorno è unicamente ed uniformemente bianco, solo al di sopra splende il cielo di un blu intenso, un tipico cielo invernale. Dopo un po' la pendenza si addolcisce, la tensione cala e in breve, traversando diagonalmente, raggiungiamo la cresta ad una piccola sella compresa fra due grosse formazioni rocciose. Ora la vetta si erge di fronte a noi come una vistosa piramide, con le caratteristiche fasciature dovute alle stratificazioni del calcare che emergono dalla neve. Verso nord-ovest vediamo il crinale del Cava ed i boschi che risalgono verso l'Orsello e la piana di Campo Felice. Seguiamo il filo inerpicandoci per roccette, poi incontriamo una formazione calcarea più compatta che scegliamo di superare aggirandolo a sinistra, lungo una specie di balconcino nevoso: il percorso è vario ed entusiasmante, dal vago sapore alpinistico. In breve raggiungiamo l'ultima selletta di fronte alla salita finale.

Autoscatto in vetta ... (forse serviva un treppiede !)

Cerchiamo di interpretare il pendio, studiando la disposizione delle fasce rocciose e dei canalini che le risalgono, con l'obiettivo di determinare una via agevole. Decidiamo di puntare verso una evidente paretina rocciosa, alta circa 7-8 metri, che si staglia circa alla metà del pendio sommitale. Purtroppo salendo la situazione si fa meno chiara e la via sembra meno evidente che dal basso. La neve continua ad essere molle o ghiacciata a seconda dei posti: la stanchezza, dopo oltre 4 ore di salita, si fa sentire e il terreno duro e ghiacciato appare preferibile anche se si incomincia a percepire la ripidità del pendio ed il senso di “esposizione”.

Nell'incertezza del terreno, che a volte ci sorregge egregiamente, altre ci lascia affondare indecorosamente spezzandoci il fiato, riusciamo a raggiungere la parete di roccia. Qui sembra proprio di stare su una terrazza sospesa, ai piedi della parete una conca di neve offre una sosta sicura, ma poco oltre i pendii intorno appaiono sfuggire in vuoti pericolosi. C'è un po' di nervosismo, il terreno è decisamente impegnativo e suscita un pò di apprensione, tuttavia sono affascinato dall'insolita postazione che abbiamo guadagnato, che sembra sospesa nel mezzo di questo versante compatto, circondata da rocce aguzze e infidi scivoli ghiacciati; dall'alto della parete pendono magnifiche stalattiti di ghiaccio e la scena rievoca lontanamente i racconti dei bivacchi letti nei libri di Walter Bonatti o di Lionel Terray.

La cresta del Morrone verso il Costone

Dobbiamo decidere quale strada prendere per superare la parete: due di noi, senza ramponi, decidono di aggirare sulla sinistra delle rocce, dove la neve appare estremamente profonda e dunque offre una maggiore sicurezza, a discapito di una fatica notevole. Io scelgo di aggirare a destra, lungo un ripido canalino che si incunea fra le rocce e rimonta la parete, lì la neve appare ghiacciata e dunque la fatica dovrebbe essere minore: con cautela lascio il balconcino della sosta e mi immetto nel canalino, concentrato su ogni singolo movimento, Mauro mi segue senza esitazione.

Questa striscia di neve è davvero ripida, e in basso si insinua fra due grosse rocce, per poi sparire alla vista, lasciando scorgere solo il vuoto della vallata sottostante. Gli attrezzi fanno buona presa - mi sento abbastanza tranquillo e concentrato  - poi d'un tratto la neve torna cedevole, le forze sono ormai poche e la pendenza  continua ad essere sostenuta, così tendo ad assumere una posizione quasi “a quattro zampe” , per distribuire meglio il peso sul terreno; con cura faccio presa con la becca della piccozza nella neve, cercando ci affondare il più possibilie anche la mano libera, peccato non avere infilato i guanti a tempo debito ! Alla fine siamo fuori del canalino, sopra la parete, su un pendio più abbordabile. Risaliamo veloci per ricongiungerci ai nostri compagni: eccoli venire su sicuri, aggirando un'ampia macchia di ginepro sotto la quale si è aperto un buco profondo. In breve siamo di nuovo tutti e quattro insieme, ormai manca poco alla meta: risaliamo soddisfatti gli ultimi metri sino al cappuccio di neve sommitale. Lo spettacolo è impareggiabile, la vetta è completamente sepolta sotto una spessa coltre di neve, ci siamo solo noi su questo ristretto fazzoletto di ghiaccio: tutto intorno è spazio e silenzio, la lunga cresta del Morrone prosegue irta di rocce nere cariche di neve, minacciosamente sospese sul vuoto dell'ampio circo glaciale che occupa il versante settentrionale. Poi oltre si ammirano le bianche punte del Costone, i possenti contrafforti del Velino, lo spallone della Magnola, le rocce del Murolungo sopra le quali si abbattono batuffoli di nubi sfilacciati, tutta la conca intorno al Lago della Duchessa scintilla di un candore accecante, sembra contenere una quantità inimmaginabile di neve; infine guardando lontano ad est appaiono nell'azzurro le severe forme del Gran Sasso, celate da pesanti nubi pomeridiane. Così il gigante di ghiaccio ci ha accolto alla sua corte, regalandoci una salita densa di emozioni, per offrirci lo spettacolo grandioso di una terra silenziosa cristallizzata nell'abbraccio dell'inverno.