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Vallone di Palombaro - Monte d'Ugni (2098 m)

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


La pedemontana sale lentamente verso i ripidi pendii orientali della Maiella, attraversando paesi dai nomi singolari: Manoppello, Casalincontrada, Guardiagrele, Pennapiedimonte; poi, a strette svolte, sale verso Palombaro; lo sguardo ancora assonnato volge ad est, dove un quieto susseguirsi di dolci colline ed erti colli incisi dai calanchi - popolati da coltivi, campi arati, casolari solitari - digrada verso l'ineffabile, effimera balugine dell'Adriatico, ancora rosata dal sole sorto da poche ore.

Ingresso al vallone

Dall'altra parte, la montagna madre si erge in tutta la sua maestosità: le pendici subito ripide, incise da colossali fenditure, le forre strette tra pareti rocciose che si slanciano aguzze verso il cielo, i boschi scuri, profondi e impenetrabili. Siamo a Palombaro, nella frazione "Tornelli", seguiamo la stradina che si inerpica verso la riserva, incrociando un pastore con il suo gregge che fa ritorno al paese; infine parcheggiamo nei pressi di un area pic-nic, immersa nel bosco. Proseguiamo per la ripida carrareccia, a sinistra un cartello indica il sentiero per raggiungere la grotta di S. Angelo, ove sorgono i ruderi di un antico tempio dedicato alla dea Bona, dea della fertilità: si raggiunge in poco tempo, ma merita senz'altro una visita a parte. Saliamo ancora, fino ad una radura: di fronte si apre imponente il profondo solco del Vallone di Palombaro, dominato dalle rocce incombenti della Cima Macirenelle; siamo all'ingresso della riserva naturale del Feudo Ugni - il nome deriva dal latino "omnium" cioè "di tutti" perchè la zona era lasciata agli usi delle popolazioni locali - una delle prime riserve istituite su questa montagna.

Qui, nei pressi di un grande cartello, lasciamo la sterrata e proseguiamo per il sentiero che si addentra nel vallone: la via è subito ripida, sassosa si snoda fra la bassa vegetazione ed i poderosi fianchi calcarei che la cingono dai due lati. Ci si alza rapidamente e, volgendosi ad est, si prova da subito una sensazione di sospensione, acuita dalla compatta foschia che copre agli sguardi il paesaggio collinare lasciato alle spalle, si è come sospesi fra la montagna quasi verticale ed il vuoto della piana che scende al mare.

Peonia officinalis

Superata una zona abbastanza angusta, ecco aprirsi la prima radura che offre nuove sorprese ai nostri occhi: a destra una complicata gradonata rocciosa si erge ai piedi di pareti verticali, a tratti interrotte da piccoli ripiani, cenge naturali ove può trovare albergo un'alberello o un cespuglio verde; a sinistra la roccia sovrasta direttamente il sentiero, grigia e compatta ci chiude lo sguardo, interrotta solo da un ripido canalone verde che sale con pendenze proibitive verso caratteristiche punte calcaree che si ergono sul filo di cresta.

Aggiriamo uno sperone roccioso per ripide ghiaie, poi, in falso piano, superiamo un boschetto di maggiociondolo, non ancora fiorito, fino ad una seconda radura. Qui, fra il verde uniforme delle erbe alte, macchie sparse di colore colpiscono subito l'occhio: è la peonia officinalis nel pieno della sua fioritura - una presenza rarissima che da sola rende ragione della fatica sin qui provata - a piccoli gruppi fa capolino fra i cespugli, col suo fiore lungo il sentiero e in mezzo alla radura, coi larghi petali violetti che nascondono il cuore di un giallo intenso. Proseguiamo, nuovamente in ripida salita, oltre una strettoia e poi ancora su pendio sassoso che si innalza a gradoni, comincia ad apparire la flora dell'alta montagna: le piccole fessure ed asperità delle rocce circostanti, riempite nel tempo dal terriccio e dalla polvere, si trasformano in splendide fioriere naturali, abitate da pulsatille, orecchie d'orso, genziane e genzianelle.

Strettoie lungo il cammino

In alto, stormi di gracchi si rincorrono lanciando richiami sgraziati - quasi metallici - riflessi e moltiplicati dal gioco degli echi sulle rocce. Compaiono le prime macchie di pino mugo che, molto rare sul resto dell'Appennino, qui formano estese boscaglie, fitte ed impenetrabili, foreste in miniatura, alte poco più di un metro, dal colore verde cupo. Ci fermiamo presso alcuni grossi massi, il sole è molto forte e tuttavia l'aria fresca e la straordinaria esplosione di verde e di fiori che ci circonda ne stempera l'effetto e annulla quel senso di aridità, di desolazione che spesso d'estate pervade le montagne appenniniche. D'altronde, la vicinanza del mare deve garantire prolungate ed abbondanti piogge, come lascia intuire la leggera coltre di vapore che si addensa tutta intorno alle cime più alte. Proseguiamo il cammino, sempre più erto, fra vaste macchie di mugo e di ginepro; in alto si scorge la linea di cresta del Martellese e del Monte d'Ugni, meta del nostro viaggio.

Siamo al tratto più ripido, si procede a rilento seguendo gli stretti tornanti del sentiero che si fa strada fra la vegetazione; lasciamo a sinistra una grande grotta, un'apertura rettangolare buia, oscura, impenetrabile allo sguardo; la fatica è grande - le schiene curve sotto il peso degli zaini - si procede quasi in apnea per pochi passi, poi un profondo respiro, uno sguardo d'intorno, e via nuovamente. Finalmente il sentiero spiana, superato il tratto più ripido si accosta ai pendii erbosi sotto la cresta, li taglia a mezza costa e raggiunge il rifugio del Feudo d'Ugni, alla testata del vallone.

Cima delle Murelle e M. Acquaviva

Sotto di noi si apre la forra che con tanta fatica abbiamo risalito, cinta tutta intorno da vette arrotondate in alto, fittamente coperte da nere mughete, che precipitano poi con strapiombi rocciosi verso il fondo. Dall'altro lato, oltre il profondo vallone dell'Inferno, si alza aguzza la Cima delle Murelle e, alle sue spalle, la maestosa, imponente mole dell'Acquaviva: un'enorme balena pietrificata, coperta di aride brecce, incisa nei fianchi da ripidi e stretti canaloni ancora ostruiti dalla neve. Più a nord, oltre il vallone di Selvaromana, la lunga costiera del Blockhaus digrada verso le oscene costruzioni della Maielletta. Nei prati intorno al rifugio dominano larghe chiazze di genzianelle blu, ovunque si notano piccole pianticelle grigio-chiare, coperte di lanugine, sono le stelle alpine, ancora senza fiori. Una breve sosta per il pranzo, un'occhiata al rifugio - ben tenuto e fornito anche di legna per il camino - e poi decidiamo di ridiscendere per un'altra strada, un pò per risparmiarci le asprezze del vallone, un pò per andare alla scoperta di un ambiente diverso.

Seguiamo il sentiero che, a mezza costa, dal rifugio si inoltra nella mugheta sull sinistra orografica (nord-est) del vallone. Scavalchiamo uno sperone erboso, in cima al quale fa bella mostra un arco di roccia naturale, e scendiamo verso un secondo rifugio, incrociando la sterrata che sale dal fondovalle. Siamo in località Colle Strozzi, un piacevole balcone erboso di fronte alle colline Teatine, costellate di piccoli paesini.

Genzianelle sul Monte d'Ugni

Seguendo decise tracce di sentiero entriamo in un valloncello, galoppiamo rapidamente lungo la distesa erbosa, rinfrescati dalla leggera brezza che spira dal mare. Al paesaggio aspro e duro delle rocce si è sostituita l'aerea veduta verso il mare: quasi a volo d'uccello verso i colli ricamati dai campi, le case sparse, lo specchio azzurro di immobile acqua del lago di Casoli e, più in la, lungo la valle del Sangro, il lago di Bomba. Infine raggiungiamo il margine del bosco, un pò di attenzione per trovare la giusta via, e poi giù nella ombrosa faggeta a rapidi passi. In poco tempo siamo alla sterrata, non resta che seguirla fino a ritrovare l'attacco del sentiero ed il parcheggio. Lasciamo Palombaro nella luce vivida e tersa del pomeriggio, ancora uno sguardo là dove il cielo si fonde col mare, e poi alle spalle: la montagna madre si erge poderosa, solenne nel candore delle ultime nevi lucenti al sole, cinta tutt'intorno da una coltre di spesse nuvole bianche, quasi un Kilimangiaro d'Abruzzo, simbolo di purezza e di eternità.

A conclusione di questa avventura una nota di merito spetta all'impegno ed alla serietà con cui il Corpo Forestale dello Stato amministra la riserva di Feudo Ugni: qui davvero si ha la sensazione di attraversare un ambiente incontaminato, le sterrate sono chiuse al traffico, i rifugi sono ben tenuti ed accoglienti, i sentieri ben tracciati e rispettosi dell'ambiente circostante. Nel panorama delle riserve minori (per estensione, non certo per importanza) quelle gestite dal Corpo Forestale sono senz'altro le migliori (la riserva naturale orientata di Monte Velino ne è un altro esempio) a riprova del fatto che le aree naturali devono essere affidate in primo luogo a chi ha le competenze scientifiche e tecniche per garantirne la protezione e la conservazione: sarebbe un grosso errore riassegnare, come è stato proposto anche di recente, le aree di competenza della Forestale alle regioni e agli enti locali.