header-photo

Monte Sirente (2348 m), dai prati per la Valle Lupara

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


Preludio: l'alba sulla grande parete

Poco dopo aver aggirato il centro di Ovindoli inizio a notare un leggero mutamento nel colore della notte che sinora mi ha accompagnato; mentre attraverso il vasto altipiano, rivolto nella direzione in cui, di giorno, apparirebbe la sagoma inconfondibile del Corno Grande, percepisco un vago schiarirsi del cielo: non ho bene in mente quale sia la dinamica del cielo mattutino, per cui decido di accelerare per non essere sorpreso dall'alba prima di arrivare a destinazione. Volgendo lo sguardo verso lo spallone spoglio del Sirente osservo una breve formazione nuvolosa che vi orbita intorno, spero non precluda la visione sulla grande parete, anche se qualche sbuffo di vapore potrebbe aggiungere drammaticità alla scena. In breve arrivo ai Prati del Sirente, nell'oscurità ancora immobile al di là di ogni timore, parcheggiando nella piazzola che si affaccia proprio di fronte alla imponente parete nord. Sembra che abbia esagerato con i tempi, l'aurora è ancora lontana e per ora posso solo ammirare la brillante luce di Marte che balugina poco al di sopra della Mandra Murata.

Alba sulla parete

L'aria è pungente, pregna di odori di erbe e di terra umida: lontano, una nutrita mandria di vacche, radunatasi intorno al laghetto, manifesta segni di generale nervosismo, rimettendo profondi muggiti, sinistramente modulati. Si sente qualche latrato lontano, forse un gregge, forse qualche cane solitario. E' buio e non so cosa fare, l'oscurità mi spinge a non abbandonare l'abitacolo dell'automobile, provo a dormire un poco, poi perdo del tempo a montare il treppiede e fare qualche misurazione: ancora troppo poca luce.

L'aurora tuttavia incalza e pian piano la gialla distesa dei prati inizia a riflettere un flebile pallore: la visione evoca scenari "africani", una pianura piatta e desolata chiusa in fondo dall'ombra oscura del Sirente, percorsa segretamente da minuscole forme di vita; aguzzando lo sguardo mi sembra di vedere piccole macchie marroni che si muovono poco lontano da me, nel prato: inizialmente mi sembra uno scherzo della vista poi, notando la familiarità dei movimenti eseguiti con eleganza e rapidità dalle piccole ombre, intuisco la presenza di qualche leprotto o volpacchiotto che si avventura in cerca di cibo ai margini della strada. Ancora poca luce, chiudo gli occhi per riposare, poi li riapro di colpo per la sensazione che qualcosa o qualcuno giri intorno alla mia auto: controllo da ogni parte ma non vedo proprio nulla. Senza accorgermene richiudo gli occhi, poi di colpo sono di nuovo sveglio: fuori dal finestrino, a una decina di metri, un cane solitario mi guarda indispettito, come una iena solitaria nella piana del Serengeti si è avvicinato furtivamente e di certo mi sta spiando già da un bel pò. Fortunatamente non sembra avere cattive intenzioni, lo metto in fuga imitando un pessimo grugnito: si avvia trotterellando verso la foresta, voltandosi a tratti per osservarmi ancora.

Prima luce sulle rocce

Ed ecco che finalmente la luce dell'alba inizia a svelare le maestose rocce che mi sono di fronte, ecco che si tingono pian piano di un timido colore rosa: la parete mi appare in tutta la sua estensione, dalla profonda incisione del canalone Majori alle ultime rocce della Mandra Murata, Marte col suo stuolo di stelle inizia a ritirarsi svanendo nel cielo che si fa di un grigio pallido e impalpabile. Ho il tempo di osservare ogni anfratto delle rocce, ogni nera increspatura fra i costoloni fiammeggianti, indugiando sui punti dove le lunghe falde di deiezione che scendono ai prati, ormai ricoperte di una fitta faggeta, arrivano a toccare i baluardi di pietra come a voler indicare nuove vie di salita alla tormentata cresta.

Pian piano si risvegliano altri animali, una grossa volpe rossa fugge via alle mie spalle, fra gli impraticabili arbusti al di là della strada, mentre un folto stormo di ghiandaie fa la spola gracchiando tra i prati e un albero frondoso. Di lontano giungono i rintocchi della sveglia degli scout, accampati nel mezzo della grande radura: è ora di andare ...

La salita

Arrivati ai resti dello chalet l'aria è piacevolmente frizzante, tanto che iniziamo a salire fin troppo velocemente; il bosco è ancora buio, trafitto di umidi riflessi verdastri. Lasciamo sulla destra il bivio del canalone Majori e proseguiamo sulla carrareccia, seguendo attentamente i segnali giallo-rossi che ben presto indicano un'imprevedibile svolta a destra. La salita si fa più ripida e tuttavia di scarso interesse, il bosco appare spoglio e inanimato, dal fondo tristemente polveroso.

All'uscita dal bosco

Dura poco però, in circa un'ora siamo al limite superiore della vegetazione, sopra un ripiano sgombro di alberi che ci offre una spettacolare visione sulle potenti costole di calcare che si innalzano verso la cresta lasciando ai loro piedi estese scie di pietrame grigiastro, qua e là attraversato da ostinate piante pioniere. Si prosegue paralleli alla cresta, su un percorso che si fa presto aereo e panoramicissimo: ecco di fronte tutto il Gran Sasso e la piana di Campo Imperatore, arida e accaldata già nel sole del primo mattino.

A destra gli fa eco la Majella, mostrando le cime che circondano il solco profondo scavato dall'Orfento. Cambiamo ancora direzione, adesso salendo ripidamente verso la cresta, sopra di noi una distesa sconfinata di prati ingialliti dall'estate sale a lambire poderosi contrafforti di roccia. Pian piano il sentiero prende a traversare in salita verso destra, giungendo a toccare l'orlo della Valle Lupara vera e propria. La valle scende verso le faggete con un ripido ghiaione solcato di scie terrose, credibilmente tracciate da massi disobbedienti piuttosto che dai piedi di qualche intrepido scalatore; a chiudere la valle,

Verso la Valle Lupara

sul versante opposto al nostro, un'ininterrotta velatura di calcari grigio-rossastri, che dalla cresta accompagna il brecciaio fino a sprofondare nei boschi, alimentandolo costantemente delle sue stesse pietre.

Il costone è irto di pinnacoli, affascinante nel complesso e tuttavia repulsivo, instabile e traballante, non ostenta lisce e solide pareti ma stratificazioni pericolanti di fasce rocciose, che si sfaldano al solo guardarle, cataste di rocce disgregate da secoli di gelo e di vento, miracolosamente ancora unite insieme a disegnare quelle bizzarre forme. Seguiamo il sentiero senza grossi problemi, indugiando oziosamente in chiacchiere, poi finalmente approcciamo il filo di cresta, dove il sentiero si fa un pò più scomodo ed è opportuno usare anche le mani. In breve siamo fuori dal vallone, di fronte ad un voltafaccia ormai conosciuto: da un mondo di rocce precipiti ad una distesa sconfinata di prati ammorbiditi dal carsismo e modellati in dolci forme ondeggianti, inasprite solo dall'arida veste che questa stagione ha portato su tutto l'Appennino.

Uscita in cresta

Verso il Fucino già i dettagli sfumano nella foschia, inutile aguzzare troppo la vista, seguiamo più o meno il filo di cresta inoltrandoci fra gli avvallamenti disegnati dalle doline e dai colli; ecco, nei pressi della vetta, una visione davvero inaspettata: sul fondo di una dolina resiste miracolosamente uno spesso tappo di neve, alto più di un metro e largo una decina, accolto come un'oasi dai cavalli al pascolo nella zona; sono radunati tutti lì, gli adulti sostano piacevolmente immobili, mentre i puledri si divertono a rotolarsi e a strofinare il muso nella neve fresca. Intorno sono disseminati gli indizi di una insospettabile frescura: fioriture tardive di viola, genziana dinarica e genzianella; poi finalmente siamo in vetta.

Che dire dello spettacolo che si svela ai nostri occhi, tralasciando gli ormai consueti panorami il vero fascino sta nel precipizio immane che si apre davanti a noi, raccolti su questo balcone sospeso sopra potenti torrioni di roccia. Mauro, salito qui questo inverno, mi descrive lo spessore abnorme raggiunto dalla neve, talmente alta da giungere poco sotto i bracci della grande croce che ora svetta per diversi metri, e da seppellire completamente la cassetta metallica contenente il diario di vetta.

Uno sguardo sul canalone Majori

Con la neve - mi racconta - ogni irregolarità della cresta viene appianata, e non è difficile che si arrivi, incautamente, a camminare su spesse cornici sospese nel vuoto, credendo di avere sotto i piedi la solida terra. Mangiamo velocemente, riparandoci il più possibile dal forte sole che sembra poterci passare da parte a parte, fortunatamente, a intervalli regolari, una fresca brezza giunge a portare sollievo. Dopo mangiato, l'idea che entrambi portiamo dentro da stamattina comincia a palesarsi: ci sporgiamo ancora per osservare il canalone Majori, l'immenso imbuto percorso da un fiume apparentemente immobile di pietrame e sfasciumi. L'ho già disceso due anni fa, e ancora ricordo l'apprensione e l'ansia seguite a quella decisione; ora per Mauro sarebbe l'occasione per la sua "prima volta": ci guardiamo, facciamo qualche commento, da qui l'attacco sulla cresta sembra verticale, inavvicinabile; eppure la traccia è lì, sinuosamente distesa su muraglie di brecce ad indicare che il passaggio è possibile.

Decidiamo di ritornare sulla faccenda dopo un sopralluogo nei pressi del punto di attacco. E anche trovarlo questo punto non è affatto facile: si deve tornare alla Valle Lupara e, invece di seguire il sentiero che ne raggiunge il fianco orientale, scendere per mobili brecce, fra tracce impercettibili, proprio lungo il fianco di quel crestone che poi va a costituire il fianco occidentale, la gigantesca vela di pietra vista in salita, che divide la valle dal canalone. Con un pò di apprensione raggiungiamo l'inizio della discesa nel colossale imbuto: ci domandiamo se vogliamo davvero scendere, ma è solo retorica.

Il Majori nella luce del mattino

Di qui non sembra neanche più verticale e in breve siamo già dentro, lasciato alle spalle un mondo di dolci praterie per un inferno riarso di brecce polverose. Inizialmente seguiamo una traccia più che evidente, cercando di evitare le zone ove le brecce hanno lasciato il posto a ripidi scivoli di terra compatta. Al di là della abbondante dose di concentrazione e di intenso sforzo fisico che questa discesa richiede, una mente superiore può anche concedersi il lusso di pregevoli vedute fra i meandri dei numerosi torrioni e pinnacoli che dal fondo del catino risalgono verso la cresta: senz'altro si tratto di un punto d'osservazione privilegiato. Dopo un primo tratto di discesa fra rocce di piccolo calibro, giunge il terreno di cui più ho timore: in corrispondenza del bacino sommitale del ghiacciaio che anticamente albergava in questa voragine le pendenza diminuisce ma le pietre si fanno più grosse e instabili, un vero caos di pietroni sovrapposti e magicamente fermi in stato di quiete apparente. Qui ogni passo va abbondantemente meditato, lo spostamento di un grosso masso minaccia di continuo i nostri arti, e non è da escludersi un effetto domino a seguito di gesti o movimenti incontrollati. La tensione è alta, bisogna indovinare una improbabile via fra mucchi di sfasciumi: abbiamo anche lasciato le tracce principali, perché ci sembra seguano brecce troppo fini e scivolose, per giunta a ridosso di pareti rocciose da cui non è escluso piovano sassi di tanto in tanto. Per Mauro è la prima volta, ma è come se stesse a casa sua e avanza davanti a me con ben maggiore decisione.

Dopo infinite acrobazie, raggiungiamo il punto di flessione che anticamente ospitava la crepaccia terminale: qui, infatti, il vallone si inabissa bruscamente, come risucchiato dal basso. Inutile descrivere l'ambiente infernale che ci circonda: tutto il pietrame che viene giù dalle pareti circostanti finisce per accumularsi qui, spinto dalla neve invernale sull'orlo dell'ultimo pendio. Proprio al centro del catino sostano dei blocchi enormi e squadrati venuti chissà da dove. Voltarsi verso le pareti ora è un vero supplizio, come un colossale specchio ustore tutto l'anfiteatro concentra il sole del primo pomeriggio sui nostri volti, costringendoci presto a voltarci verso nord, dove la visione della voragine certo non tranquillizza. Ora il problema sta nella ripidità e nel repentino cambiamento di fondo, non più grossi pietroni ma brecce finissime, alternate a scivoli di terra dura e sdrucciolevole.

Cerchiamo di seguire le colate più grosse, dove la discesa è più agevole, assecondata dallo scorrere del pietrame. Non sempre le colate sono collegate fra loro, spesso bisogna attraversare specchi di dura polvere, con la paura di scivolare e rotolare a valle rovinosamente, seguiti da uno stuolo di sassi e pietruzze; in qualche punto provo con successo a scavare dei piccoli gradini nella terra, così da rendere più sicuro l'appoggio del piede. Poi, più in basso, comincia ad apparire la vegetazione, qualche cespuglietto, qualche rado cespo di genziana lutea, vanno a formare piccole gradinate nella polvere: cerchiamo di seguirle una dietro l'altra, poi infine siamo alla boscaglia, il mostro è alle spalle, ancora una volta ci ha lasciati passare. Siamo coperti di polvere da capo a piedi, ma finalmente ci possiamo rilassare, bere un pò d'acqua e mangiare qualche tozzetto. Poi ci infiliamo nel bosco, in corrispondenza di un ometto e di alcuni nastri legati ai rami degli alberi. Il sentiero è evidente, l'ultimo esiguo tranello è all'incontro con una larga carrareccia di terra battuta, dobbiamo solo attraversarla e proseguire oltre, seguendo i segni; in breve siamo al bivio del mattino e poi alla macchina. Bruciati dal sole e vergognosamente sudici, riprendiamo la strada verso casa, giunti in vista del canalone accostiamo e scendiamo a guardare, Mauro osserva incredulo quell'immane rigurgito della montagna che da qui appare come un'unica muraglia verticale di brecce, infine mi domanda serio: "ma siamo scesi davvero da lì ?".