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Monte Sirente (2348 m), salita invernale da Aielli

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


Finalmente, dopo un lungo periodo di cattivo tempo, con l'epifania sembra giunta la giornata perfetta; a Carsoli ci ritroviamo in tre, il termometro segna 9 gradi sotto zero, tuttavia l'aria è secca e ben sopportabile, il cielo, assolutamente sgombro di vapori, si curva ad arco sopra le montagne appena lambite dal primo tiepido sole. Un'ora di autostrada e già siamo ai piedi del borgo di Aielli, poche case assiepate alle pendici dello sconfinato versante meridionale del Sirente.

Vado Castello

Poco prima di entrare in paese, nei pressi di un grosso fontanile sulla destra, voltiamo per una sterrata sulla sinistra, che si inoltra verso la montagna passando alla base del paese (si ignorino tutti i bivi, proseguendo sempre diritti). Man mano il panorama si apre sulla piana caliginosa del Fucino, lontane le nevi dei Simbruini e degli Ernici riflettono nell'aria diffusi scintillii. Saliamo in auto fino ad un cancello, che chiude i pascoli soprastanti, qui parcheggiamo e ci accorgiamo subito di aver forato una gomma; le operazioni di sostituzione ci portano via almeno una mezz'ora: non sembra un buon inizio, rispetto alla meta che ci proponiamo. Finalmente possiamo caricare gli zaini e partire: nei pressi del cancello numerosi cartelli ci ricordano l'ordinanza comunale che sancisce il noto principio "chi apre chiuda", lo osserviamo scrupolosamente.

Il nostro obiettivo iniziale è l'ampio valico del Vado Castello, visibile in alto sulla sinistra, ai piedi del Monte Etra che, a sua volta, sovrasta dall'alto l'ampio solco delle Gole di Celano. La strada si dirige là a larghe svolte, preferiamo tagliare inerpicandoci sui prati ancora congelati e duri, scoprendo una magnifica veduta sulle rocce della Serra di Celano, incorniciate fra il Monte Etra e il Monte Savina. Alle spalle il panorama è amplissimo, dal Genzana e dalla Montagna Grande fino ai rilievi del Turano, tuttavia siamo in controluce e non ne possiamo godere al meglio.

La lunga salita

Pian piano ci ricolleghiamo alla sterrata nei pressi del Vado, l'ambiente è molto suggestivo, dominato da rocce tormentate ricamate da un leggero strato di neve e ghiaccio. Sotto di noi, sulla destra, si apre profonda la voragine del fosso Pelara. A svolte raggiungiamo l'ampio valico, dove la neve comincia a farsi consistente, abbastanza fonda da permetterci l'uso delle racchette. Il gigante si svela ora davanti a noi in tutta la sua fierezza: una sterminata distesa gibbosa di nevi che si estende a semicerchio come la platea di un anfiteatro; poche montagne in Appennino sanno, come il Sirente, offrire d'inverno questo grandioso spettacolo di un mondo glaciale, sospeso in un isolamento selvaggio e misterioso, quasi un regno nascosto fra le nuvole da cui tutto appare distante nel tempo e nello spazio.

La vetta è proprio davanti e sopra di noi, ci sembra di poterla toccare con un dito, se ne scorge chiaramente la nuova croce in alluminio. Studiamo un piano per l'"assalto": carte alla mano decidiamo di seguire il crinale leggermente spostato sulla sinistra della vetta, in alcuni punti sgombro di neve e ornato di rade piante di pino, che conduce all'elevazione del M. Coppone, di lì poi decideremo il resto. In realtà, al ritorno scopriremo che la via migliore è muoversi in direzione del profondo vallone a destra della vetta, che risale verso sinistra fino a congiungersi dietro il Coppone. Calzate le racchette iniziamo a salire, sotto un cielo blu cobalto nel candore abbacinante delle nevi; il sole ci scalda fin troppo, si suda decisamente negli abiti pesanti scelti in base alle temperature del mattino.

Nei pressi della cresta

Giunti al crinale spoglio, dobbiamo togliere le racchette e caricarle nuovamente sulle spalle: pensiamo di guadagnare terreno ma in realtà il carico sulla schiena si rivela fatale, è evidente che non abbiamo ancora (almeno io) l'allenamento necessario per certe imprese. Le cose mi vanno subito male, non me lo immaginavo proprio, quasi mi manca la forza di muovere un passo davanti all'altro, devo procedere ad un'andatura più che ridotta.

Un gruppetto di fringuelli ci sorvola sfrecciando sopra le teste, quasi a volerci dare coraggio: sono uccelli molto attraenti, un pò panciuti e tozzi hanno le parti inferiori di un bel colore bianco come la neve, spezzato da eleganti fasce nere, mentre le parti superiori sono di un bel marrone tenue alternato al bianco; si muovono veloci radenti al suolo in cerca, probabilmente, di piccoli insetti o semi. Man mano che saliamo ci spostiamo sul versante che guarda il Velino e l'altopiano delle Rocche, mentre la vista ad oriente si è ampliata a comprendere anche la Majella, come sempre completamente ricoperta di nevi. Pian piano raggiungiamo il Coppone, alle sue spalle si cela un arioso rifugio (manca infatti, di tre pareti su quattro), lo raggiungiamo scendendo per una valletta intasatissima di neve poi, racchette nuovamente ai piedi, iniziamo a salire l'evidente crinale alle sue spalle. La neve non è delle migliori: in superficie presenta una crosta compatta che si rompe in lastre al passaggio, rivelando al di sotto uno strato farinoso ed incoeso, quanto basta, in altre condizioni, per decidere di tornare indietro; fortunatamente qui le pendenze sono assolutamente innocue, anche piu di quanto ci aspettassimo. La quota si fa sentire, il caldo sole è ormai solo un ricordo di fronte al potente vento che ci investe da nord-ovest e tiene la temperatura molto bassa.

La croce di vetta

Il tema conduttore della salita è semplice, superare un dosso dietro l'altro, sempre più in alto, sino alla vetta: in breve siamo ad un passaggio trasversale, in direzione di un modesto valico, la neve è fonda ed è poco agevole salire diagonalmente con le racchette, a conti fatti si tratta del terreno più impegnativo incontrato durante la salita, niente di cui preoccuparsi. Preoccupante invece è la mia costante carenza di energie: raggiungo a fatica il valichetto, mi faccio strada nel breve pianoro che segue, riprendendo un pò di fiato, poi devo assolutamente fermarmi e prendere un pò di cioccolata, nella speranza di recuperare un pò di carburante. Tutto intorno è solo neve, vallette, dossi e canaloni imbiancati a perdita d'occhio: in basso il Vado Castello sembra lo scarico naturale di questo enorme impluvio, non mi stupisce che i fossi che scendono ai piedi della montagna siano così profondi e incisi.

Il tempo è assolutamente stabile e favorevole, anche se l'ora comincia ad essere un pò tarda, se fossimo invece in presenza di nebbia avremmo davvero grandi difficoltà a ritrovare la via di casa su questo terreno che si estende uniformemente a saliscendi in tute le direzioni. Riprendo a salire, circa una cinquantina di metri ci separano l'uno dall'altro, ognuno starà vivendo le proprie intime emozioni mentre avanza un passo avanti l'altro sferzato dal vento gelido e disorientato nel candore che si spande in ogni direzione; da almeno un'ora oscillo costantemente tra la voglia di fermarmi definitivamente e la volontà di raggiungere la vetta che è rimasta - beffardamente - sempre in vista, quasi a portata di mano, ma sembra sempre oltre: oltre il dosso, oltre la valletta, oltre il passo che si scorge al di là.

Gli speroni sopra il canalone Majori

Procedo a serie di pochi passi, poi mi fermo a riprendere fiato poggiato sulla piccozza e riparto, la brutta copia di un conquistatore himalayano degli anni '50. Il vento ha preso a funestarmi il lato sinistro del volto, nell'insensibilità indotta dal gelo ho la sensazione che la saliva si stia congelando, incollandomi le labbra, che al tempo stesso sembrano spaccarsi in altri punti riversando del liquido: ci strofino una mano per vedere se è sangue, sembra di no; alla fine sono costretto a fermarmi e coprirmi il volto con la sciarpa.

Intanto Mauro P. sembra avvicinarsi alla vetta, mi sto abituando all'idea che sarà l'unico che la toccherà. Mauro F. mi raggiunge facendomi notare che si sta facendo veramente tardi e noi due dovremmo forse pensare di tornare indietro. Eppure è una giornata troppo perfetta per rinunciare, non credo ce ne saranno altre simili quest'anno, mi faccio forza e proseguo, e con me anche Mauro. Sembra questo il tratto finale della salita, non si intuiscono più avvallamenti, anche se il profilo convesso della montagna potrebbe nascondere amare sorprese più in alto.

Tramonto sulla montagna

E' quasi un'ora che avanziamo fra una lastra bianca ed una azzurra, quasi disinteressandoci allo spettacolo che ci circonda da ogni parte; infine le prime note di colore, alcune rocce giallastre affiorano da un contrafforte che riconosco bene: è il dente della vetta che sovrasta il Majori, in realtà siamo sbucati nei pressi della cresta est, più a destra della vetta, l'ennesima valleta ci separa dall'ultima definitiva impennata. Sono passate le 14.00, quasi 5 ore di cammino, ma ormai nulla ci può fermare, ci ricongiungiamo e, ormai alleggeriti e rasserenati nello stato d'ebbrezza provocato dalla visione concreta della meta tanto agognata, muoviamo veloci gli ultimi passi fino alla croce.

Che meraviglia affacciarsi (con estrema cautela) sulle rocce del versante nord: completamente incrostate da sculture di ghiaccio scaraventate e plasmate lì dalla violenza del vento; il canalone Majori è un gelido abisso di nevi intoccabili. A cerchio, tutto l'Appennino ruota intorno a noi, non manca nessuno all'appello: ecco il Gran Sasso in tutta la sua imponenza, poi la Majella, il Rotella, il Genzana e la Terratta, e via a sfilare lontani verso sud il Petroso e La Meta, la Serralunga, il Pizzo Deta ed il mastodontico Viglio, fino ai rilievi familiari dei Simbruini. Ed ancora, vicini a noi, il Velino ed i Monti della Duchessa.

La luna sorge sopra le creste

Nella gioia della conquista non sentiamo più freddo, fatica o fame (non abbiamo ancora pranzato), e ci dispiace dover voltare le spalle così presto, senza aver avuto il tempo di assorbire completamente ogni singola immagine che la montagna riflette verso di noi. La discesa è ora una pacchia, caliamo rapidamente e recuperiamo anche il tempo per uno spuntino, raggiungiamo la zona del Vado verso il tramonto, è ora che il Sirente ci regala il suo volto più magico ed affascinante: le creste lontane si tingono dell'ultimo caldo rosa, mentre l'ombra azzurrina della sera le rimonta velocemente dal basso.

Tutto è silenzio intorno, in questo mondo sospeso di valli, creste e colli addormentati sotto la neve, e nuovamente vorremmo essere lassù a cogliere il bacio del sole che tramonta, mentre luminoso, ad est, il disco della luna sorge sopra il profilo morbido della montagna; Ad un tratto, l'abbraccio rosa del sole sembra affievolirsi ed abbandonare il gigante per sempre, poi ha un guizzo di vigore, tutto si infiamma per un istante di un rosso arancio potente, poi è solo la notte, la montagna si veste di azzurro e sfuma delicatamente nei colori del cielo. Scendiamo la sterrata ormai al crepuscolo, accompagnati dai latrati dei cani in lontananza, ai nostri piedi il Fucino è un presepe di mille piccole luci.