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Monte Tarì (1467 m) da Civitella Messer Raimondo

[Notizie generali] [Scheda tecnica]


- Ho preso l’ascensore e a mezdì son sul monte Tarì.
- E quant’è alto ‘sto monte Tarì?
- Beh, millequattrocentosessantasette metri.
- Ma se avemo già fatto tutti i quattromila dell'Appennino...
- Aspetta, ma si parte da sette...
- Dall’acqua del mare, praticamente.
- No, da settecento metri.
- Un collinone, làssa perde...e ccome ce s’ariva?, te conosco, ce vorrà mezza ggiornata...
- Quasi, solo tre ore di macchina.

Intanto come non ci si arriva.
Seguendo le indicazione della ragazza del rifugio Pomilio prendo l'autostrada, ignoro la variante per Casalincontrada, tiro sull’uscita Chieti, chiedo per Guardiagrele. Che domande, dritto, due cartelli nella stessa direzione, Chieti e Guardiagrele, e segui. Poi arriva il cartello Chieti centro. Puoi immaginare che, per una cittadina blasonata come Guardiagrele, si deve prendere per la città della camomilla? Non puoi. Avanti, e sono al casello Pescara ovest della A14. Non demordo e prendo a sud. Casello Pescara sud-Francavilla, scritta Guardiagrele. Esco sicuro: a due passi ci dev’essere la superstrada iperveloce Chieti-Guardiagrele. Cartello Guardiagrele, freccia a destra, si punta sui monti. Qui scopro che Guardiagrele deve essere sinonimo in lingua antica osco-peligna di Bocca di Valle: nei cartelli il primo nome scompare e appare il secondo. E non può esserci altra spiegazione. Sti’ Peligni (tribù fiera, tarchiati e tostissimi, con carnagione e capelli e baffi scuri) avranno voluto conservare a tutti i costi il nome Guardiagrele.

Salendo per "roccette"

Nell’antichità, per non confondersi con i Sanniti di Pietrabbondante, i bambini (maschi, s’intende) gli nascevano già con i baffi. Superstrada solo un tratto, superveloce è altra cosa. Quando ci sono, ritorna il cartello Guardiagrele, ma a questo punto conviene credere a Bocca di Valle. E qui riscopro, saranno cento volte, che Pennapiedimonte, Palombaro e Fara San Martino, non sono tre borghi attaccati , uno dietro l’angolo dell'altro, ma distano una ventina di chilometri. Di strada fonca, direbbe la vecchia alimentarista di Cappadocia. Ammiro i pilastri calcarei di Macirenelle, seguo il filo del sentiero che sale verso colle Bandiera e biforca tra Val Serviera e Macirenelle. Vedo a Fara il fornaio senza fila (da tre o quattro anni non accadeva), appetitosa pizzetta alle alici, rifornimento acqua e tre ore son passate. Poco male, c’è ampia scelta e, infatti, è tardi e sono obbligato a prendere il sentiero breve.

Punto su Lama dei Peligni, duetre tornanti e zàcchete, nel mezzo di un tornante a sinistra, la tabella in legno, la bacheca con la piantina, l’imbocco facile di una sterratina sulla destra. Seguo la sterratina fino a una ex oasi del WWF. Due belle costruzioni chiuse, posto picnic curato e deserto causa fontana assucca, parcheggio più che ampio, per le folle che frequentano il posto. Bei cartelli in legno con indicazione stilizzata dei sentieri. Qui cominciano i piedi. Dovremmo essere sui 704 metri. Seguo la sterrata, che prosegue, salendo nel bosco, fino ad un bivio segnalato con cartelli di legno ben fatti: diritti prosegue l'escursione ecologica, a destra monte Tarì. Il sentiero adesso è più ripido, prende un tratto di ghiaione (sembra il sentiero del Crepacuore senza cuore, brevissimo, però), lo abbandona e comincia a salire con tornanti più ampi e più dolci.

Il Vallone di Fara dal M.Tarì

In un bosco misto con tanti pini: tipica ombra di pino, aghi per terra e odor di resine. Ogni tanto muretti a secco, accurati e solidi, sostengono il sentiero. Si esce dal bosco e la vista s’allarga sulla valle dell’Aventino, i monti Pizi, la pietra Cernaia. E il turchese del laghetto di Casoli e, laggiù, l’azzurro dell’Adriatico. In mezzo la zona industriale del Sangro, le coltivazioni collinari. Un paesaggio molto antropizzato, che a me non piace molto. Ma serve a ‘dare aria’ al sentiero e rinfresca la vista.

Il sentiero s’inerpica, diventando più ripido e faticoso, mai esposto, con tratti tipici di misto appenninico (roccette e terriccio), forse in discesa ci vorrà a tratti il riduttore baricentrico, chissà. La segnaletica non è buona, è ottima: scandita da paletti di legno a testa dipinta in giallo (dallo stato di conservazione sembrano messi di recente) e ribadita da segni per lo più rossi, talora giallorossi, più in alto anche giallo verdi. In due punti paletti di ferro con cordino bianco non proteggono un bel niente, ma danno un messaggio inequivocabile: da questo lato nun è ccosa. Casomai, ogni tanto il sentiero ‘si nasconde’, coperto dall’erba, si vede che ci passano in pochi. D’altro canto, mantenere il sentiero è indispensabile, per come è fatto questo spallone della Maiella: i passaggi sono spesso obbligati ed è facile trovarsi ‘incartati’, senza passaggio né in su, né in giù. In mezzo a faggeta abbastanza giovane, non fitta, si sale aggirando prima, sulla destra, un roccione e, poi, sulla sinistra uno speroncino.

La mole imponente dell'Acquaviva

La vegetazione è varia, mi par di riconoscere piante di pimpinella (quella che, senza, l’insalata non è bella), ma non sono sicuro: ci vorrebbero gli amici botanicanti. Dopo lo speroncino il limitare del bosco con un grande pratone, ripido ma percorribile, e la cresta in vista. Un paletto giallo è in zona coperta dagli alberi, punto a destra, poco più in basso, in luogo scoperto, dove occhieggia un evidente segnale rosso e, a due orette dall’inizio della camminata, sono in cresta. Spettacolo spettacolante. Inquadratura mai vista. A sinistra il fasciame di roccia che contorna a sud l’alta Val Cannella. Brillano nel sole il parallelepipedo della cima dell’Altare e le rocce bianche striate di nero che celano il minerale più prezioso, l’acqua della grotta dei Diavoli ai duemila, sopra la Sala del monaco. Anche lo sperone che si protende a forma di prua dal costolone est è ben visibile. La lunga costiera del monte Sant’Angelo, che sale dal Piano la Casa e, sotto, l’inaccessibile forra del vallone del Macellaro, invisibile anche a chi sale alla Bocca dei valloni.

E lì, sul Piano la Casa, la zona di fonte Gelata, lo speroncino, che si aggira immettendosi nel vallone delle Mandrelle. E qualcuno che s’è fregato il sentiero delle Mandrelle, da qui non si vede più. Scende il costolone scuro del monte Pizzone, dove la mugheta ha coperto i vecchi segnali del sentiero, che saliva verso l’Acquaviva, e plana sulla cresta della Cima della Stretta, da dove, stando accorti su tracce di sentiero e cengette, è possibile occhieggiare sulla parete opposta, precipite sulla Val Serviera. E anche qui hanno rubato il sentiero, che scende alla Bocca dei valloni dalla Val Serviera, l’avrò fatto quattro o cinque volte e non lo trovo più. Sotto il belvedere del Tarì un dirupo erboso e radamente faggioso precipita sul vallone di Santo Spirito, settecento metri più in basso, forse dalle parti della fontana delle Vatarelle. In alto si intravede il cuore della Val Serviera, la zona della grotta Callarelli, e quanto è lungo per salire su: a vedere dalla grotta e dal fiorito vallone dell’Acquaviva non si direbbe, ma è proprio lunga.

Fontana del 1895 ai piedi del Porrara

E la Val Forcone che sbuca nella sella delle Murelle. Vista a occhio nudo la costa delle Murelle sembra molto ripida. Col binocolo è meno ripida, se vado a vedere da vicino, diventerà quasi pianeggiante. A destra la cresta dal Martellese a Macirenelle e le grandi pareti, che serrano l’incontro tra valle del Fossato e Val Serviera, chiudono l’inquadratura. Sulla sinistra il gran crestone promette una lunghissima camminata e infinite varianti.

La discesa è scorrevole e tranquilla. La sterratina in auto si percorre velocemente: resisto alla tentazione della porchetta de lu pennese, il norcino-bar sotto Casoli, pensando alla pecora del Silvio, sapientissimo beccaio in Ciciliano, e, all’incrocio con la strada, prendo deciso a destra; stavolta i cartelli non mi fregano, giro su Campo di Giove e scendo da Cansano o Pacentro: se non risparmio strada di montagna, almeno riprendo l’autostrada a Sulmona. Attaccata al distributore, la trattoria di Palena. Ricordo la chitarrina con la salsa fatta in casa e il gusto del peperoncino fresco piccante. Non è orario, tocca passare avanti. Mi fermo, sulla destra, alla grande fontana del 1895: dal sapore, l’acqua si direbbe più antica. Poi è solo ritorno, ammirando i grandi balzi del Porrara. E la prossima volta, si va in cresta.