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Bacco a Pisoniano

"Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi...". Non recoba sotto il faggio fronzoso, il professore. Né suona pifferi. Qual volpetta instancabile percorre, scruta, sniffa, perlustra ogni canalone e valletta e selvotta, erborizzando sulle orme del gran sapiente: quell'Athanasius Kircher, il quale (si può ben dire) sulla Mentorella ha lasciato il cuore.

Alla cerca delle essenze: aglietti e timi serpilli, nepitelle e santoregie, sambuchi nani e ginepri pedemontani. Che impreziosiscono le salsiccette sott'olio, morbide eppur mature di fumi odorosi, contingentate con rocciosa e lungimirante equità. O il giambonetto di maialotto, divezzato di primo pelo, dal cui fondo di aromi boscospeziati si sporge il finocchietto. O che finiscono fuse nei longognocchi maritati alla salsa di spuntature o di pecora (in madrelingua, i gnócchitti lónghi, vermicelloni di pasta fresca, allungati a mano sul legno).

Se non si preferisce il piatto global del tempo che fu, le sagne co' gliu béccalà: da prenotare con un paio di giorni d'anticipo. Senza scampo e con il béccalà a seguire, secondo buon senso.

Si officia in locale dedicato a Bacco, doverosa rassicurazione in un borgo con nome d'acqua dolce, evocante pescólle, piscine e pesci. Si sa, l'avventore è come il filosofo, dubita. Allora, vini sodi al gusto ma piacevolmente fluenti, scelti dalla casa per l'homo sapiens sapiens, che non si illude di trovar nel bicchiere un quadro del Caravaggio.

Dolcetto ispirato al meriggio: frutti del bosco e termica tenzone tra caldo e fresco.

C'è una dolorosa lacuna. Il borgo che ospita il locale è noto per uno storico utensile, la padella pe' cóce i misciu, salvezza nei giorni di tempesta. Il professore ne è, sfortunatamente, sprovvisto. Nessuno è perfetto.